Villaurea-Termini Imerese: per non morire di fame i miei antenati mangiavano erbe selvatiche

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Nel 1799 i Cimino, miei antenati, furono i primi a popolare, con pochi altri, il grande feudo di Villaurea, già Signora; contribuendo a scrivere un pezzo di storia della nostra città e del suo territorio.

La “licentia populandi” era stata chiesta e ottenuta da Don Francesco De Michele Barone di Villaurea, di Napoli, di San Giuseppe, di Termini, e Pari di Sicilia.

La presenza della mia famiglia in quel luogo, è attestata da un documento rilasciato a Cerda a Francesco Cimino nato nel 1778, padre del nonno di mio nonno (Ferdinando).

Il Cimino risultava allora proveniente da Valle d’Olmo e sposato con tale Antonina Taibbi; a sua volta nativa di Racalmuto in provincia di Agrigento.

Provincia dalla quale, con molta probabilità, ambedue erano originari. Le condizioni di vita in cui si trovarono i miei antenati, e altri poveri sventurati che li ebbero a stabilirsi, furono veramente difficili; e ce ne da una impietosa descrizione Niccolò Palmeri; che nel 1824, dopo avere visitato il borgo, così lo descrisse: “… Questo villaggio fu fabbricato 22 anni fa in un podere del barone di San Giuseppe, mio cortesissimo ospite colà. Esso non è che un aggregato di pochi tugurii donde sbucarono al mio arrivo alquanti sciaurati, non saprei dir se più simili a spettri, che venian fuori dal sepolcro, od a uomini moribondi presso ad entrarvi…”

– Insomma i “Signurara” gli sembrarono non esseri umani, ma dei morti viventi. E non è certo finita qui; infatti, sempre il Palmeri, continuava la sua lugubre descrizione di quei poveri diavoli, in pratica schiavi alla mercé del barone, dicendo così: “….Il villaggio è tutto popolato di contadini che vanno ad opera, onde la loro sussistenza dipende dallo stato della agricoltura della contrada. In quegli anni in cui i lavori campestri sono estesi, trovando facilmente lavoro, hanno da vivere: e se il lavoro manca, vivono di sole erbe selvagge, e per lo più muoiono di fame….”
Anche i miei antenati quindi, erano costretti a mangiare erbe selvatiche o a morire di fame! E tutto questo mi da profonda tristezza; ma anche la consapevolezza di come quella gente, così dignitosamente umile, fosse legata alla terra e al lavoro.

(Nella foto Villaurea oggi, testo a cura di Nando Cimino)
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