Termini Imerese: in via Spadaro odori e sapori d’autunno

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In un preciso periodo dell’anno, e questo almeno fin verso la metà del novecento, la via Spadaro si caratterizzava per essere la strada degli odori e dei sapori.
 
Qui infatti, nei poco più dei duecento metri della sua lunghezza, c’erano ben tre frantoi che, poco oltre la metà di ottobre, incominciavano la loro frenetica attività di spremitura delle olive. Ubicata parallelamente alla centrale via Vittorio Amedeo, e giusto alle spalle della ormai non più esistente chiesa di San Francesco di Sales, per almeno due mesi il posto diveniva meta incessante di tanti contadini che, con muli e carretti, portavano l’alivi a macina.
 
Qui c’era infatti il trappeto di Campagna, poi quello di Agostino La Mantia e ancora quello di Sebastiano Passafiume. In anni successivi, a gestire quest’ultimo, che come tanti altri era a conduzione familiare, c’era una simpatica donnina che, proprio per questa sua caratteristica, tutti a Termini conoscevano come donna Pippinedda ra macina.
 
I ricordi ancora vivi di molti anziani, riportano che almeno fin verso la metà del secolo scorso, nella nostra città erano ancora in funzione non meno di quaranta frantoi. In genere, tranne pochi, si trattava di piccoli locali dove, anche dopo l’avvento dei motori elettrici, la molitura avveniva ancora con il tradizionale sistema del traino animale. Erano infatti i muli, che con il loro incessante movimento circolare, provvedevano a far girare le grosse e pesanti ruote di pietra con le quali venivano schiacciate le olive.
 
In passato il quartiere di Sales era abitato soprattutto da contadini; e percorrendo le sue strette viuzze si passava davanti a tanti bassi semibui dove i viddani vendevano, a parti ri casa, vinu, mennuli, sorbi, ficurinia, e ovviamente l’ogghiu novu. La via Spadaro è già presente nel nostro stradario cittadino del 1878; e ipotizzando che abbia preso il suo nome da quello di una famiglia, immaginiamo che quest’ultima avesse proprietà in quella zona ancor prima della nascita del quartiere. Oggi, di quel passato, più nulla rimane.
 
La sede stradale è ormai cementificata, e non c’è più la caratteristica pavimentazione con basole e ciaca di mari; e invece di muli e carretti, solo auto. Non ci sono nemmeno le macine con i tanti contadini seduti in attesa davanti alle porte; e manca soprattutto “u ciauru di ogghiu novu”, che si spandeva nell’aria e infondeva quel senso di gioia e di serenità che solo la semplicità di un tempo sapeva regalare.
 
 
 
 
 


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