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Ma c’erano anche ragazzi che pur di guadagnare qualcosa ne riempivano capienti cassette e con quel pesante carico andavano in quelle strade dove il carretto non sarebbe potuto arrivare. Era sabbia pietrificata che veniva raccolta in una piccola cava gestita da tale don Vicè La Barbera e che si trovava a qualche chilometro dalla città in contada Molara, poco oltre la stazione di Cerda; località che, proprio grazie a questa sua caratteristica, era chiamata “u cozzu a rina”.
Ma a che cosa serviva a rina nell’uso domestico, e perché veniva venduta pure per le strade? – Ebbene anticamente quando l’uso smodato dei detersivi era ben lontano da venire e per cuocere si utilizzava ancora la legna, quel prodotto serviva per tirare a lucido le pentole che, messe sul fuoco, con il passare del tempo diventavano nere a causa del fumo. Prima di procedere con la pulizia c’era però da fare una operazione preliminare, che era quella di ridurre le pietre di sabbia in granelli finissimi; cosa che veniva fatta con l’aiuto di un grosso martello o, come ebbi modo di veder fare a qualcuno, anche con la base del ferro da stiro.
La stessa lucidatura richiedeva tempo ed impegno; e per procedere nel lavoro occorreva pure una bacinella con acqua e un mezzo limone. Tante donne, soprattutto d’estate, facevano questa operazione sedute davanti alla porta di casa o, avendone una nelle vicinanze, anche in qualche fontanella pubblica. Il procedimento era semplice; prima si bagnava nell’acqua il mezzo limone e poi, dopo averlo passato nella sabbia, lo si incominciava a strofinare con forza sulle pentole. Ci voleva del tempo ma alla fine il risultato era perfetto e le pentole di alluminio, ma soprattutto quelle di rame, tornavano a luccicare come fossero nuove. L’arrivo di spugnette d’acciaio e di detersivi, ma soprattutto delle cucine a gas, ha poi facilitato il compito alle nostre nonne e per le strade non passarono più i venditori di rina.
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