La parrocchia vanta un coro polifonico di lunga data: creato dal primo parroco, negli anni
Sessanta, quando venne costruita la chiesa, è stato via via gestito da sacerdoti coadiutori
o da laici appassionati di musica che ne hanno assunto la direzione. C’è chi, entrato
quando era bambino, ne fa parte ancora oggi, chi è arrivato dopo durante “campagne
acquisti” – inviti da parte di cantori o del direttore a parrocchiani che cantavano durante le
celebrazioni – e chi si è proposto.
Tutti sono ben accetti, perché il volontariato, oltre al
sacrificio del tempo libero, comporta impegno: le parti musicali vanno studiate, bisogna
fare le prove, essere presenti a celebrazioni e concerti per raccogliere fondi, e così via.
Quindi non si dice di no a nessuno. Il problema è che tra le ultime new entry c’è una
persona che… stona. Non ha una brutta voce, ma spesso non si accorge di non prendere
la nota giusta e, per di più, per troppo entusiasmo tende a a “strillare” sovrastando le voci
altrui, invece di amalgamarsi all’insieme (un po’ di discrezione eviterebbe anche la
sgradevolezze più clamorose).
Qualche cantore ha già manifestato insofferenza, arrivando
a chiedere il suo allontanamento: il coro è sempre stato apprezzato per il livello qualitativo,
tanto da essere richiesto anche a qualche matrimonio, e adesso il rischio figuracce è
dietro l’angolo.
Problema: come dirglielo senza offendere la sua sensibilità e senza
disprezzare la buona volontà dimostrata fin qui? «Non è mai facile dire qualcosa di
imbarazzante. Ma parte della difficoltà nasce dal fatto che spesso noi proiettiamo il nostro
disagio in ciò che dobbiamo comunicare e diamo per scontato che sia imbarazzante anche
per l’altro», premette Benedetta Comazzi, psicologa a Milano. «Ma non è detto: magari la
persona che è stonata è consapevole della sua difficoltà, ma essendo stata ammessa nel
coro pensa di andare bene così. La comunicazione, poi, non deve essere per forza un
giudizio di valore, bisogna scegliere con cura le parole.
Non è indispensabile dire “Non seicapace di cantare”. Inoltre, insieme alla comunicazione più spinosa,
si possono fare anche apprezzamenti: “Sei più brava nei toni bassi, ma purtroppo nel repertorio abbiamo molti
pezzi che non sono esattamente nelle tue corde per la loro struttura” o qualcosa del
genere. Mettere sempre per prima una qualità, una risorsa dell’altro e parlare dopo di cosa
le manca. In generale, può essere utile anche sottolineare come in ogni caso ha fatto
un’esperienza che l’ha fatta crescere, le ha portato nuove conoscenze, la abbia permesso
di dimostrare che è capace di mettersi in discussione e di uscire dalla sua zona di comfort
perché non è facile trovare il coraggio di esibirsi davanti agli altri e con altri. Un’altra
possibilità è proporre una soluzione alternativa, nell’ambito delle varie attività di
volontariato che si possono fare per i bisogni della parrocchia – che sono sempre tanti –
tenendo conto delle sue predisposizioni: animazione in oratorio, seguire gli adolescenti,
partecipare ai gruppi che realizzano gadget artigianali in occasione delle feste, coordinare
le persone che collaborano durante la liturgia (lettori, chierichetti, offertorio…), partecipare
a momenti di aggregazione per gli anziani, e così via». Molta attenzione va data al
contesto e alla dinamica: «Parlarne davanti a tutto il coro o comunque di fronte ad altre
persone può risultare umiliante. Viceversa, quando l’errore potrebbe essere causato
anche, almeno in parte, da una responsabilità collettiva – per esempio il fatto che le prove
sono state poche – il sottolinearlo può essere rassicurante».
Padre Giovanni Calcara, domenicano del Convento San Domenico di Palermo, aggiunge:
«In un contesto di aggregazione in ambito parrocchiale o di volontariato, bisogna sempre
far prevalere la dimensione dell’amicizia, del servizio e della gratuità. Chi ha la
responsabilità di coordinare i gruppi dovrebbe avere anche la capacità di distinguere a
monte – magari con una piccola audizione, nel caso del coro – i talenti delle persone che si
propongono e consigliare loro quale sia il “settore” migliore nel quale mettersi a
disposizione. Sconsigliare il canto non significa disprezzare la persona o sottovalutare la
sua buona volontà nel darsi da fare per gli altri, ma fargli capire che potrebbe essere più
utile e anche più valorizzato per altre necessità della parrocchia e dei parrocchiani, tutte
ugualmente nobili e valide. Come in un mosaico, tutti siamo pietre vive e preziose per il
risultato complessivo. Se questa selezione non è avvenuta, è necessaria pazienza,
delicatezza e tempo per far capire che, per esempio, il repertorio corale sacro non è il più
adatto per la sua voce o che in quel momento occorrono altri tipi di voci e di tonalità. Il
tutto, naturalmente, va fatto coordinandosi col parroco, in modo che possa a sua volta
intervenire per non “perdere” la disponibile generosità di un parrocchiano che è sempre
preziosa».
Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 40 del 6 ottobre
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