Ma non pochi di quelli che agli inizi del novecento vi erano venuti ad abitare, ma che di Termini non erano, usavano la parola “picchiusa” non come aggettivo, bensì come sostantivo.
Si; perché in effetti si trattava di un oggetto di uso comune che anticamente tutti avevano nelle case. Infatti, quando ancora non c’era la luce elettrica, e per far si che di notte si potesse avere sempre un minimo di illuminazione, si usava una piccola lucerna fatta di terracotta, ma a volte ricavata anche artigianalmente con un bicchiere, che veniva chiamata proprio “lampa picchiusa”.
In pratica fu l’antenata delle cosiddette lucciolette; che con l’avvento della elettricità, tutti tenevano accesa di notte accanto al comodino o davanti alla foto di un parente defunto.
A picchiusa però, faceva spesso danni; non di rado infatti causava incendi che nelle case di allora si trasformavano in vere e proprie tragedie. Ma, dal termine picchiusa, veniva fuori anche il modo di dire “ittari u picchiu”; ovvero l’esser presi di mira da qualcuno e cioè divenire oggetto di jettatura o malocchio. In questi casi, e volendo far riferimento proprio alla parola “picchiu”, si usava un metodo sotto forma di scongiuro che, quando rivolto alle donne, faceva pressappoco così:
“Fora lu picchiu fora a malia, pruvurenzia pa casa mia, fora lu picchiu fora u stinnicchiu, e a cu ci l’avi cu mia…supra o sò pacchiu” !
CONTENUTO E FOTO A CURA DI NANDO CIMINO
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