Sempre più spesso, complici anche i social e tv, i giovani ricorrono a un linguaggio “colorito” per facilitare la propria comunicazione.
Come si può fermare questa cattiva tendenza?
Le parolacce ormai sono un intercalare anche nel linguaggio di conferenzieri, intellettuali e ospiti di talk show. Ma per un genitore può essere ancora disturbante sentire che, in un lessico sempre più “povero”, imprecazioni, sconcezze e volgarità abbondano sulla bocca di figli e figlie, adolescenti o bambini. E va ancora bene quando il turpiloquio non sconfina nella bestemmia o è usato per insultare padri e madri che oppongono un rifiuto o impongono un orario di rientro. «Giorni fa contemplavo un tramonto sull’Adriatico: bello, ma un po’ rovinato da una conversazione di un gruppo di ragazzi in cui era notevole la densità di quelle un tempo si sarebbero chiamate appunto parolacce», racconta Luciano Grigoletto, psicoterapeuta, collaboratore del Centro della famiglia di Cinisello Balsamo e autore di Piccolo manuale per conoscere le emozioni (Edizioni San Paolo, vedi recensione a pag. XX).
«Volgarità e turpiloquio sono sempre esistiti, mi ha fatto notare un amico. Ma mi sembra un approccio superficiale, perché qualche elemento di novità è abbastanza evidente. Volgarità, turpiloquio, addirittura la bestemmia sono entrati nel linguaggio corrente. Basta seguire qualche trasmissione in tv o frequentare i social per accorgersi di quanto sia diffuso il fenomeno degli odiatori, che non hanno alcun interesse ad ascoltare le ragioni dell’altro e preferiscono insultarlo, presumendo che l’utilizzo della volgarità trasformi il politico o l’intellettuale in “uno di noi”. Ho chiesto a una giovane amica e a qualche conoscente come mai abusassero del turpiloquio. Alcune risposte sono state illuminanti: “Perché non sappiamo come esprimerci. Magari usiamo parolacce perché ci danno l’impressione che dicano tutto, ma non è vero”.
Il tema fa riferimento alla fatica di trovare “le parole per dirlo” (dal titolo di un libro di Marie Cardinal), per raccontare all’altro quello che si prova senza riuscirci. Perché bisognerebbe innanzitutto comprendere le proprie emozioni e i propri sentimenti. Quindi la volgarità, il turpiloquio, la bestemmia indicano rabbia e dolore, a volte desiderio, a cui non si riesce a dare forma, risultando in una sorta di poltiglia comunicativa insensata. È il tema, grande e importante, dell’analfabetismo emotivo, che riguarda soprattutto, ma non solo, le nuove generazioni». Perché scegliere la volgarità? «Perché è facile, non richiede nessuna riflessione e può assumere un ruolo identitario: il bambino che non conosce le parolacce non può far parte del gruppo, è condannato all’isolamento», continua Grigoletto. «Ma non solo: è sempre più comune il turpiloquio in ambito familiare, nelle relazioni tra figli e genitori.
Per capire i motivi di questa brutta novità posso citare un episodio accaduto durante una terapia familiare: la madre accusava il padre di non intervenire quando il figlio la insultava, “Tanto con te non lo fa mai”. Il padre, dopo qualche esitazione, provò a spiegare le sue ragioni: “Io parlando con nostro figlio non ho mai usato parolacce. Tu invece quando ti arrabbi lo fai sempre. Cosa ti aspettavi succedesse?”.
Un giovane amico mi confermava questa ipotesi: sentiva volgarità e bestemmie dai suoi genitori, in particolare dal padre, che poi, quando lui lo imitava, si arrabbiava e diceva che no, non si dicono le parolacce. Ma così non può funzionare, l’autorità dei genitori non è più riconosciuta, il rispetto bisogna meritarselo. Anche con la coerenza tra raccomandazioni e comportamenti». La soluzione? «È banale da descrivere e difficile da praticare: il rispetto in una relazione, anche tra figli e genitori, riguarda entrambi. Se vuoi essere ascoltato dovrai prima di tutto imparare ad ascoltare. Se non vuoi essere insultato, devi imparare prima di tutto a non insultare».
Padre Giovanni Calcara, domenicano del convento San Domenico di Palermo, ricorda come «Il Vangelo dice “Il vostro parlare sia sì sì, no no, e il di più viene dal Maligno.”
Il problema è che oggi si è perso il valore del del linguaggio. E il parlare “sboccato” può far sentire più grandi, come fumare: i grandi sono tali perché possono usare qualsiasi tipo di linguaggio senza divieti.
Ma il linguaggio non può essere fine a se stesso, deve essere finalizzato al momento, al contesto, a ciò che si sta vivendo: il linguaggio crea relazione, comunione, simpatia. Anche confronto, ma la violenza verbale non può mai essere accettata. C’è una mancanza educativa di genitori ed educatori: nessuno di noi ricorda a quale età ha imparato a dire grazie o prego, o il momento in cui ha detto la prima parola, deve essere qualcosa di quasi innato, così che il bambino, il ragazzo, l’adolescente possano esprimersi sempre con un linguaggio adatto alla situazione e opportuno.
Poi c’è la tv, dove la gente si accapiglia con tanti “bip” che sottintendono volgarità in libertà, o il linguaggio violento delle canzoni. Ma bisogna far capire ai figli che un conto è l’espressione artistica o il ruolo che si è scelto un personaggio, un altro i rapporti nella vita vera. Col gesto e la parola si manifesta all’esterno quella che è la propria interiorità: se i ragazzi non hanno una dimensione spirituale, riflessiva non sono più capaci di valutare anche il senso delle parole e se li riprendi rispondono “Ma cosa c’è di male?”. Si dovrebbe rilanciare: “E allora cosa c’è di bene? La parola che hai detto rispetta la persona a cui l’hai rivolta, il contesto in cui ti trovi? Se non credi in Dio, perché lo bestemmi?”.
Il linguaggio volgare spesso rispecchia il modo in cui oggi i ragazzi vedono i rapporti interpersonali, non più in termini di armonia, educazione, gentilezza e rispetto, ma di competizione, supremazia, affermazione aggressiva di sé e della propria volontà, non capendo le conseguenze che le parole possono avere sulle perone a cui le indirizziamo».
Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 35 del 1 settembre
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