Come far capire ai figli che nello sport valgono anche le sconfitte

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Queste Olimpiadi ci hanno mostrato il lato più bello dell’agonismo, con tanti atleti
soddisfatti della propria prestazione al di là del risultato. Un esempio a cui i genitori, che a
volte pretendono troppo dai ragazzi, dovrebbero guardare per incoraggiarli positivamente.

Prima la nuotatrice Benedetta Pilato, 19 anni: «Ci ho provato fino alla fine mi dispiace, ma
queste sono lacrime di gioia, ve lo giuro, è il giorno più bello della mia vita», ha detto ai
giornalisti che le hanno chiesto un commento a caldo, subito dopo aver mancato il podio
arrivando quarta per un solo centesimo di secondo.

Poi Filippo Macchi, 22 anni, che dopo
avere perso la finale olimpica del fioretto per una sola stoccata fatta ripetere tre volte
sempre a suo svantaggio, si è congratulato con l’avversario e si è preso la responsabilità
della sconfitta, anziché attribuirla all’arbitraggio.

E dopo ancora Francesca Fangio, 28
anni, primatista dei 200 rana settima alla semifinale che alla giornalista che le dice «Non è
stata la tua serata», risponde: «No, non direi così, sicuramente posso nuotare meglio però
sono contenta perché me la sono goduta e sono andata senza ansia, l’atmosfera è
strepitosa, quindi sono molto contenta… Per i giornalisti magari è brutto sentir dire è bello
anche solo partecipare, ma per me lo è stato».

Questi ragazzi, al top dello sport mondiale,
hanno dato una bella lezione di umiltà.

«Di più: con la sua spontaneità, la sua gioia sincera
e profonda, Benedetta Pilato ci ha dato una lezione di vita che mi ha commosso, a fronte
del pessimo esempio dei commentatori che hanno messo in dubbio anche la loro buona
fede», concorda Federica Benassi, counselor familiare e responsabile da 28 anni di un
asilo nido a Bologna.

«Lei, che ha perso per un centesimo il podio – che cos’è un
centesimo? – ha mostrato come concentrarsi sul percorso, fatto di sacrifici, e apprezzare
ogni progresso possa portare a una felicità autentica, indipendentemente dal risultato. E
così ha già vinto. Molti genitori “figliocentrici”, cioè che polarizzano tutta la loro vita sui figli,
invece, si focalizzano solo sui risultati, a scuola e nello sport, con aspettative altissime e, a
volte, irrealistiche. Il figlio deve essere il numero uno, e quindi tutto viene anticipato: al
nido i bambini hanno già un’agenda google… Tutto ciò può dare luogo a un’educazione
tossica, caratterizzata da critiche continue e dalla ricerca di una perfezione inesistente. Ciò
non solo li stressa, ma può minare la loro autostima e il loro benessere psicologico».

Come ha sottolineato Benedetta Pilato: «Un anno fa non ero neanche in grado di farla
questa gara. Questo è solo un punto di partenza. Tutti si aspettavano di vedermi sul
podio? Tutti tranne me». Continua Federica Benassi: «L’opposto di quello che fanno molti
genitori, per i quali il percorso è irrilevante, anche se magari parlano tanto di resilienza. E
ciò viene trasmesso anche ai figli, che a loro volta vogliono tutto subito, e non solo nello
sport. È essenziale, invece, valorizzare ogni piccolo traguardo, perché rappresenta un
passo avanti e merita di essere riconosciuto e celebrato. Riconoscere lo sforzo fatto e
festeggiarlo. Ciò promuove un atteggiamento positivo e contribuisce a costruire una solida
autostima e un senso di realizzazione duraturo. Così si va avanti e arrivano anche i
risultati».

Per padre Giovanni Calcara, domenicano del convento San Domenico di Palermo, «San
Paolo parla in termini agonistici anche della fede, “Ho combattuto la mia buona battaglia,
ho terminato la mia corsa”. Le Olimpiadi ci mostrano – o dovrebbero mostrarci – lo sport in
modo diverso da come siamo abituati a vederlo di solito con in primo piano il
protagonismo, le sponsorizzazioni, le polemiche… La dimensione umana si vede poco.
Ma dietro pochi minuti di gara ci sono anni di allenamento, sacrifici, rinunce, solitudine fin
da bambini. E invece gli atleti che vincono sono definiti “mostri”, come se non fossero
esseri umani. Gli atleti felici anche se non hanno vinto ci dimostrano di aver percepito in

Padre Giovanni Calcara

pieno il senso dello sport, che non solo è il guadagno o l’immagine, ma esserci. Purtroppo
non vale altrettanto per i media, che focalizzano l’attenzione sui primi tre, salvo eccezioni:
o sali sul podio, o non vali nulla. Non è corretto parlare di “sport malato”, è la società, la
stampa, sono i genitori, i dirigenti, gli sponsor che, invece di valorizzare l’umanità della
performance, pretendono la competizione fine a se stessa, il successo, le medaglie da
contare». Tanto che, quest’anno, forse un po’ sulla scia dell’apprezzamento che i ragazzi
hanno avuto sui social, in qualche articolo ci si è gloriati delle “medaglie di legno”, ossia i
quarti posti degli italiani rimasti fuori dal podio per poco.

«La stessa noncuranza c’è nel
mancato riconoscimento del valore dell’avversario che, invece, deve essere annientato,
polverizzato. Prevale la ricerca della supremazia personale,: si fa a fatica a riconoscere
che qualcuno è più bravo, si incolpa la sfortuna, la poca “cattiveria” agonistica, le
distrazioni, le fidanzate… Per non parlare di cosa è successo attorno alla boxe femminile,
con sospetti e prese di posizione di dirigenti e addirittura della politica che certo non
aiutano il mondo dello sport. Bisognerebbe mantenere un giusto equilibrio tra la
dimensione dell’attesa, della vittoria, del prestigio nazionale e il valore della persona: si
impara anche attraverso la sconfitta, si prende atto del proprio limite e del fatto che magari
con il tempo può essere anche superato».

Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 34 del 25 agosto
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