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Come dire ai propri figli che il nonno è andato in cielo?

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Di solito si tende a proteggere i piccoli di casa dal dolore, specie quello che deriva dalla
scomparsa di una persona cara. Ma non è così che sin fa il loro bene.

La nonna ci ha lasciato per andare in Paradiso: una frase che oggi molti genitori faticano a
formulare. Mamme a papà spesso non sanno come dire al bambino – piccolo ma non tanto
da essere inconsapevole che l’adorata compagna di giochi e merende non c’è più. Ancora
più difficile se il bambino è stato tenuto lontano dalla malattia. Con tale premessa, non è
strano che gli si voglia evitare anche la partecipazione al funerale. Scelte comprensibili, in
una società che cerca di tenere alla larga i più piccoli dal dolore, con l’intento di
“proteggerli” da sofferenze che si preferirebbe rimandare all’infinito.

«Premetto che morte, malattia e in generale l’approccio con la sofferenza risentono dell’ambiente culturale»,
sottolinea Benedetta Comazzi, psicologa a Milano. «Da noi si tende a rimuovere, altrove i
riti del commiato sono vissuti in maniera più pubblica e la morte è considerata a tutti gli
effetti parte della vita. Ma anche con un tema così delicato conta soprattutto la chiarezza.
Spesso quando si dà una notizia brutta a un bambino si tende a edulcorarla. Ma ciò ciò da
cui dobbiamo proteggerlo, più che dalla sofferenza, è dalla sensazione di imprevedibilità. Il
dolore è normale ed è importante educare i bambini anche al dolore della perdita. Il
linguaggio deve essere adeguato all’età, ma non evasivo o bugiardo (“Non lo so dov’è
andata la nonna”, “È partita per un viaggio”): soluzioni facili, ma inadeguate, perché i
bambini hanno bisogno di una verità nella quale possano percepire la riparazione e la
cura. Quando la persona cara si ammala, è consigliabile dire “Nonno non sta bene, ma i
dottori stanno facendo il possibile per guarirlo”. Se la guarigione non c’è, bisogna dire con
la massima semplicità, “Nonno non c’è più, è venuto a mancare, è morto”».

E, per i credenti, “È con Gesù, con la Madonnina e ti guarda insieme a loro”.

«Al contrario, espressioni come “È diventato una stellina o un angelo” sono di difficile comprensione a 3-
4 anni. Meglio cercare di far capire il ciclo della vita con esempi che conosce: il pesce
rosso che è vissuto nella sua boccia solo qualche settimana, la piantina seccata dopo
averla innaffiata e vista fiorire. Bisogna aspettarsi che il dialogo non si esaurisca con la
comunicazione dell’evento, ma che nei giorni seguenti il bimbo senta il bisogno di
parlarne, di fare domande. È importante aiutare i bambini a elaborare le emozioni, non
essere spaventati dalla loro tristezza: dobbiamo aiutarli a riconoscerla e verbalizzarla,
cercare insieme cosa si può fare per contrastarla, per esempio mantenere vivo il ricordo».
Funerale sì o no? «È importante che i bimbi partecipino, perché aiuta l’elaborazione del
lutto. Se er un bimbo molto piccolo, di 2-3 anni, il contesto può essere forte, si può
pensare a un rito di passaggio “alternativo”: dire ogni sera una preghierina per il nonno,
portare i fiori sulla tomba, mettere una foto della nonna vicino al lettino. Se li si porta al
funerale, è bene prepararli: “Andremo in chiesa, ci sarà la messa per la nonna con tante
persone che verranno a salutare lei e noi…” e così via.

Soprattutto nei più piccoli, l’adulto
diventa un modulatore delle emozioni e quindi i bambini si approcceranno emotivamente
alla perdita sulla base di come l’adulto la sta affrontando. E quindi far loro percepire che
anche noi siamo tristi, ma non ci facciamo distruggere, e se la mamma piange perché ha
perso la “sua” mamma, il papà deve aiutare il bambino a capire che succedendo. Non è
facile, ma si fa un gran regalo ai figli se li si aiuta a familiarizzare con la morte». È
d’accordo padre Giovanni Calcara, domenicano del Convento San Domenico di Palermo:
«Un conto è proteggere i bambini; un altro impedire loro di crescere. Protezione non
significa negare loro la possibilità di capire che nella vita c’è un tempo per ogni cosa, per
la gioia e il dolore, per la fatica e il riposo, per la vita e per la morte. E invece i genitori

Padre Giovanni Calcara

spesso vogliono creare per loro un mondo da cartoni animati, tenendoli lontani dalla realtà.
Ma si cresce quando si cominciano a perdere le cose a cui si tiene, cioè quando si prende
atto che le cose non vanno sempre come vorremmo. È necessario comprendere il senso
della morte: come credenti, sappiamo che la vita non è tolta, ma trasformata e bisogna far
capire anche ai nostri bambini che la nonna non è più presente qui con noi, ma vive
un’altra dimensione della fede, vive in Cielo, Gesù l’ha voluta vicino. Purtroppo non
possiamo avere per sempre le persone a cui vogliamo bene accanto a noi, però le
portiamo sempre dentro di noi.

E l’amore che la nonna aveva per lui c’è sempre, però in
maniera diversa. La morte non è una punizione, ma il compimento di un progetto d’amore
che il Signore ha per noi, la partecipazione a una vita eterna, senza fine. Ma ne devono
essere consci prima di tutto i genitori: nella dimensione di fede la morte non è un viaggio,
è un essere in Cristo nella nostra natura spirituale. Poi alla morte, un fatto naturale, mentre
noi ne abbiamo cambiato i termini anche quando diciamo “Non è giusto”.

Bisognerebbe pensarci prima, per preparare i bambini e prepararci noi, invece di viverla sempre come
qualcosa di non messo in conto. Cominciando col portare i bambini a visitare il cimitero,
spiegando loro che è il “campo santo”, il luogo dove i santi riposano in attesa della
risurrezione quando rivedremo i nostri cari».

Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 32 del 11 agosto
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Redazione

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