Chi come me ha già qualche anno sulle spalle, lo ricorda ancora con questo nome; poco o nulla ne sapranno invece i giovani, a cui comunque val la pena raccontarne la storia.
U chianiceddu Salìa si trova nella parte bassa della città, ed è un piccolo slargo da cui prendono avvio le monumentali scalinate della via Roma e della via Errante.
Anticamente, quando ancora si camminava a piedi, e soprattutto durante la bella stagione, questo luogo si trasformava in un piccolo salotto a cielo aperto; punto di incontro dove tanti si soffermavano prima di affrontare la non agevole salita verso Termini alta. E proprio per questo, subito attorniato da tanti bambini, o chianiceddu Salìa prolungava la sua sosta anche un anziano venditore ambulante di caramiluna.
Era un omino di bassa statura; vestiva spesso con abiti usati che, non sempre adatti alla sua taglia, gli davano un aspetto goffo ma, al contempo, ne esaltavano la simpatia. La sua putìa era una capiente cassetta di legno che portava appesa al collo con una cinta di cuoio. Dentro, tra gli scomparti, era sempre piena di liquirizie, di dolcissime caramelline alla cannella, e soprattutto delle cosiddette “ciaurrine”; fatte con il solo utilizzo di zucchero e miele e dalla caratteristica forma elicoidale. U chianiceddu Salìa è un luogo del cuore e della memoria.
Qui infatti, come fosse un teatro, durante la processione di ritorno della Immacolata del Duomo si radunavano tantissimi fedeli per assistere a quello che popolarmente veniva chiamato “u canciu”. Era infatti uso, oggi purtroppo non più, che i marinai, dopo aver portato la pesante vara per le vie di Termini bassa, prima di riconsegnarla alla confraternita, effettuassero di corsa e tra gli applausi dei presenti, l’impervio ultimo tratto.
U chianiceddu Salìa, che di fatto non ha un suo vero e proprio nome, è così detto perché giusto li nei pressi, esiste una antica stradina che già nella prima toponomastica della città, risalente al 1878, era indicata proprio come Vico Salìa. Ma perché si chiama così? Ebbene la via aveva preso questo nome perché anticamente, e per tanti anni, li c’era una frequentatissima bottega dove si vendevano formaggi; bottega la cui proprietà era appartenuta ad una famiglia il cui cognome era proprio quello di Salìa. Anzi, stando a quanto riportato nella lista ufficiale della Camera di Commercio ed arti di Palermo del 1902, che vedete in foto, le rivendite di formaggio dovevano essere addirittura due e non una. Una licenza di “commerciante di caci” risultava infatti intestata a Salìa Ignazio di Antonino, ed un’altra a Salìa Spicuzza Nicolò di Vincenzo. Un cognome “strano” a dire il vero, e che in origine si ritiene potesse esser scaturito da una ‘nciuria; stante il fatto che ancora oggi, nella parlata popolare termitana, l’atto di grattare e spargere il formaggio nella pasta, è comunemente detto “saliàri”.
Mi vien quindi da pensare che quel luogo, grazie proprio a quel tipo di attività, dovesse esser caratteristico anche per i suoi profumi. Non è infatti difficile immaginare l’intenso odore di caciotte, pecorino e tumazzu, che si spandeva nell’aria e per tutta la zona circostante. Oggi di questo più nulla rimane.