Termini Imerese: l’antico canto in onore del monte San Calogero (Eurako)

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ANTICO CANTO IN ONORE DEL MONTE SAN CALOGERO (EURAKO)
di  Serrano Lavinico

Tempo fa, tra le vecchie carte che si trovano nella nostra biblioteca Liciniana, mi sono imbattuto in questa bellissima ode, magistralmente scritta nel 1774 dal Signor Don Stefano Palumbo; il quale in seno alla Accademia Euracea, che accoglieva tutte le menti eccelse della città di Termini Imerese, aveva assunto il nome di Serrano Lavinico.

I versi sono tutti riportati fedelmente, esclusion fatta per poche parole che non si riescono a ben leggere nel manoscritto, e che ho volutamente omesso. Lo stile, ormai desueto, e quello anacreontico; una corrente poetico-letteraria che si richiamava al lirico greco Anacreonte (VI° sec. a.C.) che nelle sue opere trattava temi quali l’amore, l’amicizia, la natura, il divertimento.

In questo caso la bellezza dei versi sta anche nel fatto che attraverso la loro lettura, ci si rende conto di quale rispetto e ammirazione godesse la nostra montagna; considerata il monte del mito.

I
O Musa tu che in chiare e dolci rime
canti le donne i cavalieri egreggi
un vivo fuoco al petto mio imprime
di nuovo stil fa, il mio lavor si freggi.
Vada la cetra mia in suon sublime
del monte Eurako per cantare i pregi
così la fama poi volando giunge
in quella terra cui il mar disgiunge.

II
D’Imera a fronte in maestosa foggia
d’anfiteatro vi sta un monte eretto
le falde spaziose in mare appoggia
che dà allo sguardo un si leggiadro aspetto.
Quando le nubi la disfansi in pioggia
splendon le rupi come cristallo eletto,
scorre l’umore in tortuosi giri
e smalta i prati d’oriental zaffiri.

III
Su la vetta di lui, largo e rotondo,
un piano erboso si dispiega in giro;
e quante grazie in se racchiude il Mondo
pare che liete insiem lassù si uniro.
S’alza un tempio colà bello, e giocondo,
che d’erba sol ha natural zaffiro,
la non strisciò con velenosi fiati
il serpe vio che inaridisce i prati.

IV
Ecco di la vedrai dolce pendice
sparsa di varii fior d’ape dorate,
e quando è il giorno poi dolce, e felice
volan tutti per quelle erbette amate.
Chi ormai dolce dal fior licore elice,
chi di cera poi fa case dorate,
e liete alfin ben cento volte al giorno
alle ceree magion fanno ritorno.

V
Dolce l’inverno là nè da spittati
orribil venti egli è esposto all’ira
sebbene ardente è il sol …. l’estati
un’aura fresca che dal mar vi spira
di fichi, uve, e pomi e frutti grati.
Il fecondo terren brillar si mira;
e sparsi i prati son d’alvi melliferi
veggonsi gli alberi al suol pender fruttiferi.

VI
Di qua d’erba gentile i sassi ornati
ove di Febo mai percuote il raggio
rose, viole, e gigli e frutti aurati,
vi son colà e fan perpetuo maggio.
Le denze nebie e gli aquiloni irati
non fanno alle loro fronde onda ad altri
avvizicchiata all’olmo ivi la vite
porge l’uve mature, e saporite.

VII
Non mai pungenti spine e non orticha
o pestifera pianta il monte ignora
ma capre e buoi per la montagna amica
corron saltando al verde pasco all’ombra.
Sorgge al basso poi l’aurata spica
che del monte le vaste falde adorna
sparsi vedrai rustici abituri
cinti di fonti cristallini e puri.

VIII
Lassù non va l’ambizion fumante
che gonfia di se stessa ogn’altro oblia
lungi l’invidia pallida, e tremante
che dè mortali il mal sempre desìa.
Lassù non va la morte a noi davanti
colla sua falce sanguinosa e rea,
e là non v’è discordia e tradimento
ne terror ne ruina e ne spavento.

IX
Ma sol vedrai d’Arcadia il sacro genio
e l’Orcomenie suon e le Deniadi
e sotto l’ombra assiso il vecchio Stenio
vede danzar le Napee colle Amadriadi.
Qui canta Febo Pallade e Stenio
scherzan fra l’onde pure le Naiadi,
qui Zeffiretto spira e scherza Clorida (e)
per ogni valle della montagna florida.

X
Giove stesso dal soglio suo stellato
d’onde moto alle stelle ormai dispenza
scende da molti Dei accompagniato
apparecchia lassù lauta menza
acchieta qui il suo furore usato
l’ira ne calma a nostri mali ……
E delli pini e delli faggi accanto
asculta dè pastori il dolce canto.

XI
Bello è a veder or per le valli al prato
Ninfe cinte di gigli e di viole
all’ombra Pan con vario suono e grato
satri invitar a far danze e carole.
Bello e a veder a con ….Tisia appoggiato
ove unire col suono i carmi suole,
fra gli alti pini e fra le salde abbeti
s’odon cetre zampogne e canti lieti.

XII
A paragon di lui quanto vien meno
il gran Parnaso ove ogni Musa accorre,
qui vedrai sempre il di bello e sereno
ed ogni dove un puro ciel discorre.
L’ulivo e alto pin orna il terreno
d’onde l’incenzo lacrimando scorre,
corron di qua di la di pinti augelli,
saltan per rupi i lepri lievi e snelli.

Anacreontiche

Contenuto curato da Nando Cimino
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