Termini Imerese: c’era una volta “a stazioni ri viddani”

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Ormai non più in funzione e rimasta sola soletta in mezzo alla campagna, per tanti anni e se pur piccola, fu una delle stazioni ferroviarie più frequentate tra quelle “minori” della linea Palermo-Messina.

La stazione di Buonfornello, che si trova al limite est del territorio di Termini Imerese, giusto nei pressi dei resti del tempio di Imera, era anche conosciuta come “a stazioni ri viddani”.

Venne aperta in tempi successivi al 1887; ovvero quando la Società per le strade ferrate della Sicilia, ultimò il tratto di linea di poco più di 23 Km. che da Fiumetorto arrivava a Cefalù. La presenza di una stazione proprio in quel posto, era stata dettata da ragioni turistico-archeologiche vista la prossimità degli scavi di Imera; ma aveva giocato un ruolo non secondario anche il fatto che la grande piana di Buonfornello, e grazie alla agricoltura, era allora luogo di lavoro e fonte di reddito per tante famiglie del territorio.

Almeno fin verso la fine degli anni cinquanta erano infatti tanti i contadini che ogni mattina salivano a Termini su una fumosa littorina a gasolio, e dopo circa venti minuti giungevano a Buonfornello. Alcuni scendevano poco prima anche nell’altra stazione di Fiumetorto; posto che, a sua volta, segnava la diramazione della linea che da Palermo si inoltrava verso l’interno per Agrigento e Catania.

I viddani erano numerosi soprattutto d’estate, quando arrivava il tempo della raccolta del pomodoro e delle pesche; prodotti che in quella zona erano veramente buoni e abbondanti. Con le mani callose e la pelle scura, bruciata dal sole, li vedevi scendere a gruppi con il classico muccaturi russu in testa e con sulle spalle u zappuni. Tanti portavano a tracolla un tascapanu di tela verde militare, dove tenevano i pochi viveri.

Spesso si trattava solo di na vastidduzza ri pani e qualche pezzo di tumazzu; visto che tanti, anche per evidenti motivi economici, preferivano consumare il loro frugale pasto con quel che trovavano sul posto; ovvero pani e pumaroru a stricasali, o pane e frutta. Si trattava quasi sempre di lavoratori a giornata (jurnatera).

Il capostazione li conosceva bene; e se pur sollecitandoli con lo sguardo smanioso, pazientemente attendeva che tutti scendessero, prima di alzare la paletta verde e fischiare per dare il via libera al macchinista. La stazione, dal lato che dava sulla strada statale 113 che era li a pochi metri, aveva anche un piccolo giardino con un ombroso pergolato e il classico forno a legna. Questo perchè per il capostazione, quel luogo non era solo il posto di lavoro; ma li, in appositi locali, egli, insieme alla famiglia, vi abitava pure.


Dall’altro lato della strada, giusto a pochi passi, c’era anche il bivio che, attraverso una antica trazzera che passava davanti o chianu tammurinu, portava al suggestivo borgo di Villaurea; meglio conosciuto come a Signura. E questo era un altro dei motivi per cui, proprio li, si era resa necessaria la costruzione di una fermata del treno.

Qui, ed ancora fin negli anni sessanta del novecento, era possibile usufruire anche di un servizio automobilistico privato; ma non di rado c’era chi, magari avendo bagagli voluminosi al seguito, affrontava il non agevole viaggio per la impervia strada di Villaurea, anche a bordo di un carretto.
Si tratta di scene di vita vissuta e oggi dimenticata.

Ma sono scene sicuramente testimoniate, almeno per chi ne conosce la storia, anche e proprio da quella vecchia stazione che è ancora li a segnare il tempo e a ricordarci quel lontano passato.

(Contenuto a cura di Nando Cimino. La foto in B/N è stata condivisa da Rosalia Azzarello)
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