3.Fatti del giorno

Se un figlio si spegne: il lutto più duro da affrontare

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La tragica fine di Giulia Cecchettin ma anche la morte imprevista di altri ragazzi fanno
riflettere su come i genitori e i parenti possono superare la dolorosa perdita di una giovane
vita
L’anno che è appena finito si è chiuso con una tragedia, l’omicidio di Giulia Cecchetin che,
tra molti altri temi di cui si è ampiamente dibattuto, ha portato alla ribalta anche l’aspetto
del dolore atroce che un genitore deve affrontare per la perdita di un figlio. Un lutto
precoce che può avere tante cause – più spesso un incidente stradale o una malattia che
colpisce in giovane età – ma sempre impensabile, inaccettabile. Anche quando il figlio è
un uomo o una donna adulto e indipendente, con una propria famiglia e a sua volta
genitore: sopravvivere a un figlio è sempre “innaturale” per un padre o una madre. Anche
(o forse di più) se si tratta di anziani che vivono l’evento come una ingiustizia: “Perché non
io, che ormai ho fatto la mia vita?”.

Un lutto che, forse, è insuperabile, ma con il quale
bisogna convivere: per le persone care, per altri figli magari piccoli, per il coniuge, per i
propri genitori – se ci sono ancora – e anche per se stessi. Premette Viviana Ciovati,
psicologa di Lainate (Milano): «Tutti ci avviciniamo giorno dopo giorno alla morte, ma
nessuno sa come e quando. La morte del proprio figlio è sicuramente l’esperienza più
dolorosa per l’essere umano. Perché porta via con sé anche una parte del genitore, oltre
a sogni, speranze e attese dedicate a quel figlio e a quella figlia, fin da prima della sua
nascita.

La sofferenza dei genitori “orfani del proprio figlio” è incolmabile». Ciò che si
affronta è inenarrabile: «Perché nel pensiero è un evento inconcepibile, e non c’è
differenza se il figlio che viene a mancare ha 5, 18 o 40 anni. È uno sconvolgimento della
famiglia e un dolore difficilissimo da accogliere. Se la perdita avviene per un incidente,
senza “preavviso”, il trauma è violento. Non si può tornare indietro, ma ci sono comunque
pensieri su cosa si sarebbe potuto fare prima e durante, per impedirlo. Nel caso della
malattia, c’è un cammino di rifiuto, accettazione, speranza, alti e bassi e il lutto comincia
prima del distacco.

Nel caso di un incidente questo percorso non può avvenire. Talvolta il
dramma è tanto violento da minare anche la tenuta della coppia, perché la madre e il
padre vivono la perdita del proprio figlio in modi diversi, tra rabbia, senso di colpa, senso di
impotenza…, e può accadere che nel cammino verso la rassegnazione le strade
divergano».

Come si sopravvive? «Non ci sono ricette migliori per uscire questo trauma, ogni persona
trova una risposta. Nulla è più intimo del dolore. C’è chi ritrova una ragione di vivere nel
lavoro, chi negli altri figli, chi nel volontariato, chi nel resto della famiglia – perché magari ci
sono anche nonni e zii coinvolti nella perdita. E chi ha bisogno del sostegno di un esperto
per tornare a respirare. È fondamentale non chiudersi, ma condividere il dolore, parlarne,
vincendo la barriera inconscia che porta a isolarsi nella sofferenza, perché oggi la nostra
società, che rimuove il dolore e la morte, spesso è impreparata ad accogliere il lutto».
Esistono anche gruppi di supporto: «Con incontri che permettono alle persone di essere
se stesse, di piangere se ne hanno voglia, di non vergognarsi se hanno voglia di ridere per
un bel ricordo sul proprio figlio, di poter parlare con sconosciuti che capiscono perché
hanno vissuto o stanno vivendo una esperienza simile. Chi è colpito da un grave lutto ha
la sensazione di essere fuori dalla normalità, di diventare matto. Invece, quando ti accorgi
che chi vive la tua stessa condizione si comporta allo stesso modo, capisci che la tua
reazione è normale. E parlare, parlare con altri che ti capiscono, è assolutamente
liberatorio».

Come dovrebbe comportarsi una persona vicina a qualcuno che ha peso il
figlio? «Mettendosi in ascolto. Capendo quando e se parlarne, non essere invadenti ma
“chiedere il permesso”. Far sentire la propria vicinanza anche stando in silenzio mentre si
accoglie il dolore dell’altro. Non dare giudizi, non dare consigli, non suggerire soluzioni,

per quanto armati di buone intenzioni. Restare vicini, ma alla giusta distanza: “Ci sono, se
hai bisogno di me”.

Detto ciò, non esiste una strada chiara per tutte le situazioni.
Ciascuno ha bisogno di tempo, del proprio tempo, anche di molto tempo, per ritrovare un
equilibrio – diverso da quello che aveva prima – ma pur sempre equilibrio».

Per padre Giovanni Calcara, domenicano del convento San Domenico di Palermo, «Il
credente deve avere come riferimento la Parola di Dio: Gesù dice “Chi crede in me ha la
vita eterna”. Per il cristiano la morte non è una fatalità, non è una tragedia, non è una beffa
del destino ma il compimento del progetto di salvezza che Dio ha partecipato a tutti
attraverso la passione, morte e risurrezione di suo Figlio. Una visione di fede che può
aiutare, ma per l’essere umano non è sufficiente: di fronte a tragedie, il genitore si chiede
“Perché a me? Perché a mio figlio?”.

Padre Giovanni Calcara

Anche Gesù piange di fronte alla morte di Lazzaro. E
il dolore della Madonna che vede crocifiggere Gesù è quanto di più atroce viene narrato
nel Vangelo: però Maria rimane in piedi sotto la croce, perché sa che il suo posto è lì. Oggi
per noi la morte è qualcosa da esorcizzare, la persona è “deceduta, scomparsa, mancata”:
per noi chi muore dorme in Cristo in attesa della resurrezione della carne. Rimane il
perché: ma la morte per il credente non è mai una punizione. Quando il dolore ci sovrasta,
succede anche di “litigare” con Dio. Bisogna pregare come gli Apostoli: “Signore, aumenta
la nostra fede”. E come Gesù, che pure ebbe paura della morte tanto da chiedere al Padre
“Allontana da me questo calice”, salvo poi accettarlo col conforto dello Spirito Santo. Ed è
così che anche noi dobbiamo cercare consolazione».

Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 2


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Redazione

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