Termini Imerese: c’era una volta… a visita pu luttu

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Il documento che vedete in foto, e che fa parte della vasta collezione privata dell’amico Carlo Aguglia, risale al 1922 ed è veramente singolare.

Infatti, si tratta si di un invito; ma, come avrete capito dal colore, ancorché dal testo, non è certo un invito a un battesimo o per un matrimonio, bensì per un funerale. Invero, anticamente, era usanza che subito dopo un decesso, si dovessero avvertire parenti e amici.

Chi viveva in condizioni economiche agiate lo faceva inviando la notizia in stampa; diversamente era uno degli stessi familiari che girava immediatamente di casa in casa per portare il triste annuncio. Non farlo, o dimenticare qualcuno, era considerato uno sgarbo; e ciò era spesso motivo di contrasto. E in questi casi c’era chi, offeso, commentava: “U sappi pi menzu di autri”; oppure fino al drastico: “Nuddu mi dissi nenti e iò un ci vaiu”. Finito il funerale, era pure tradizione che già dal giorno dopo, si facesse visita alla famiglia del defunto. Anche questo era un vero e proprio rito, ritenuto quasi un dovere, a cui nessuno si sottraeva.

Oggi i familiari, quasi come fosse un disturbo, nei bigliettini che si distribuiscono ai presenti dopo il rito funebre, e con riportata pure la data del trigesimo, oltre a ringraziare scrivono, bene in evidenza: “Si dispensa dalle visite”. Anticamente invece, quelle visite non solo non erano dispensate, ma anzi attese; e mai nessuno arrivava a mani vuote.

C’era chi portava biscotti, in genere savoiardi o quelli comunemente chiamati “sport”, chi zucchero o caffè; c’era persino chi arrivava con un bel sacchetto di uova. Per alcuni giorni, nella casa del trapassato, era un continuo viavai di gente che si intratteneva a chiacchierare; e non solo con argomenti strettamente pertinenti al motivo della visita.

Entrando, e in segno di cordoglio, si baciavano i familiari del deceduto, e poi si faceva sfoggio delle solite frasi fatte: “E cu l’avia a diri”, “Parsi na bumma di l’aria”, “La calunia cci fui, e la morti vinni”, “Cristiano bonu era, parsi arrubbatu”; e per finire con la classica: “Finiu di soffriri, si iu a risittari”. Erano ritualità consolidate, segno della pietà popolare, di cui oggi rimane solo un lontano ricordo.
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