Questa consuetudine, almeno nella nostra città, e soprattutto tra le famiglie appartenenti ai ceti popolari, restò in auge fin oltre la fine degli anni sessanta; poi, lentamente, anno dopo anno, cominciò a scomparire.
Vi parlo del cosiddetto “luttu strittu”; usanza che si metteva in pratica quando, in famiglia, veniva a mancare qualche persona cara; madre, padre, moglie, marito, figli. Obbligo imprescindibile, e soprattutto per le donne, era infatti quella di vestirsi totalmente di nero; indossando anche il velo sul capo, e calze non trasparenti.
Per qualche tempo, e questo soprattutto fra gli anni sessanta e ottanta, fu abitudine, per le donne, portare al collo anche una collana con un ciondolo a forma di cuore, e con stampata la foto del defunto.
Anche per gli uomini il lutto era impegnativo; infatti oltre all’abito scuro, mettevano cravatta e coppola nera; e, a secondo del grado di parentela, era pure prevista una striscia nera sul bavero della giacca o una larga fascia sulla manica. Inoltre, e questo durava per qualche settimana, se si trattava del marito, o di figli in età adulta, veniva lasciata incolta, pure la barba.
A questo “supplizio”, sebbene in forma più leggera, venivano sottoposti anche i bambini; infatti, pure loro, dovevano portare sul risvolto della giacca la striscetta nera o, nel caso si fosse d’estate, un grosso bottone di stoffa a spilla, sulla maglietta o sulla camicia.
Almeno per i grandi, il periodo durante il quale si dovevano seguire queste “regole” era abbastanza lungo; e ovviamente molto dipendeva proprio dal rapporto di parentela che si aveva con il morto. Ricordo di tante mogli che, rimaste vedove, e specie se non più giovani, restavano vestite di nero praticamente a vita. Con il passare del tempo comunque ci si incominciava gradualmente a togliere alcuni indumenti, che pian piano venivano sostituiti con qualche capo grigio; era il cosiddetto “menzu luttu”, che precedeva il totale ritorno alla normalità.
Il lutto stravolgeva la vita della intera famiglia; infatti non si ascoltava più la radio, non si organizzavano e non si partecipava a feste, ci si recava, ma dopo qualche tempo, solo in chiesa o al cimitero.
A causa del lutto, molto spesso venivano rimandati a data da destinarsi anche eventuali matrimoni. In queste consuetudini erano coinvolte anche le case; infatti per parecchio tempo le imposte non venivano aperte, e rimanevano socchiuse solo per far passare uno spiraglio di luce e un po’ d’aria. In pratica, nel caso di morte di un marito, la vedova rimaneva chiusa in casa quasi fosse una prigioniera. E da qui, con ogni probabilità, l’accostamento all’appellativo di “cattiva” che anticamente veniva dato proprio alle vedove.
La parola infatti deriva dal latino “captivus”, il cui significato, fra l’altro, è anche quello di prigioniero. In tal senso, e per completezza di informazione, vi dico che a Palermo esiste un luogo detto “Passeggiata delle Cattive”; posto dove le vedove andavano a prender aria, lontane da sguardi indiscreti.
La manifestazione del lutto era consuetudine anche nelle porte delle case; che venivano listate con una grossa fascia di stoffa nera e spesso anche con un cartoncino sul quale era scritto il grado di parentela; ad esempio “Per il mio caro sposo”, “Per la mia cara mamma” e simili. Non di rado, e ne ho personali ricordi, questi segni si estrinsecavano anche in altri elementi, che oggi potrebbero sembrarci ridicoli, ma che allora avevano pure grande valenza.
Per esempio, i tanti carrettieri ancora presenti nella nostra città, usavano bardare con nastri neri anche il loro animale. Ma pure gli automobilisti erano usi trasferire questa pratica nelle proprie macchine; al cui specchietto retrovisore, ma anche sulla mascherina anteriore, appendevano “a scocca nivura”; ovvero un grosso nastro di stoffa nero. Insomma, quando si era a lutto, lo si faceva sapere a tutta la città; e spesso c’era chi commentava: “La morti a tutti trova, e lu munnu s’arrinnova!”