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Non è facile accettare la “staffetta”, specie se persiste un forte legame con il predecessore. Ma andando oltre i pregiudizi, si possono avere belle sorprese.
Don Paolo aveva retto con saggezza e passione la parrocchia fin dalla posa della prima pietra della chiesa, negli anni Settanta. Al primo pastore, ideatore di tante iniziative, i parrocchiani erano affezionatissimi. Il suo ritiro dall’incarico per un giusto e meritato riposo, dopo decenni di servizio, ha commosso tutti. Un parroco in gamba, “a disposizione” per molto tempo, oggi è spesso un’eccezione.
In base al canone 522 del Codice di diritto canonico è sì opportuno che il parroco goda di stabilità e perciò venga nominato a tempo indeterminato, ma il vescovo diocesano può anche nominarlo a tempo determinato, stabilito in nove anni dalla Conferenza episcopale italiana. Dopo don Paolo, è arrivato un nuovo parroco: una seconda fortuna, considerando che oggi moltechiese sono amministrate “in condivisione”, sotto forma di unità pastorali, per la cronica mancanza di sacerdoti.
Una nuova benedizione che, però, non tutti comprendono nella sua eccezionalità: Pietro, per esempio, il marito di Maddalena – coppia da sempre impegnata in parrocchia e nell’oratorio – non riesce a legare con nuovo don. Non accetta la mancanza del precedente, a cui lo lega una amicizia che prosegue ancora, fa fatica a stabilire una relazione col nuovo parroco e anche a rendersi disponibile come in passato, a Maddalena dispiace molto, perché condiziona anche lei. «In questa situazione sono in gioco due dinamiche: fiducia e apertura al cambiamento», premette Benedetta Comazzi, psicologa a Milano.
«Il parroco è un punto di riferimento nel quale i fedeli ripongono la loro fiducia. È chiaro che quest’ultima si conquista sul campo, passo dopo passo. Anche se, mi si perdoni il paragone, il credente già compie un atto di fiducia, o più esattamente di fede, incondizionata: in quanto popolo di chiesa, si dovrebbe essere “allenati” e quindi disposti ad accogliere una nuova persona compiendo anche un atto di fiducia aprioristico». Il coach americano Stephen R. Covey (1932 – 2012), nel suo libro I sette pilastri del successo parlava di “conto corrente emozionale”: un immaginario conto corrente dove al posto del denaro ci sono le emozioni e dove depositi e prelievi si riferiscono alla quantità di fiducia guadagnata o persa che una persona può provare nei nostri confronti.
«Quando si inizia una relazione di qualunque tipo, e quindi anche tra parroco e fedeli, si apre un “conto corrente” dove, prima di prelevare, bisogna metterci dei “soldi”: invece di pretendere che il nuovo parroco faccia tutto quello che faceva il vecchio e nello stesso modo, i fedeli devono fare il primo passo per accoglierlo, mettendo un po’ da parte i pregiudizi». Dall’altra parte, una persona che entra in una comunità prendendo il posto di qualcun altro deve tener presente il fatto che ha a che fare con un gruppo consolidato, con regole, abitudini e valori propri, nel quale inserirsi piano piano. Bisognerebbe coinvolgere i fedeli nelle decisioni da prendere in determinate situazioni, anche cercando di capire come si comportava il precedente parroco o chiedendo come si regolano loro d’abitudine».
Poi è chiaro che quando ci si affeziona a qualcuno, con il quale si sono vissute esperienze piacevoli e costruttive, si sviluppa la convinzione che solo quella persona ci possa dare aiuto e solo con lei si possano raggiungere determinati risultati:«Ma è una falsa credenza», avverte l’esperta.
«Che ci preclude esperienze e legami potenzialmente arricchenti. È importante essere aperti al cambiamento, che sicuramente porta con sé delle resistenze, soprattutto emotive più che pratiche, ma potrebbe darci più di quello che ci ha tolto e sarebbe un peccato perderlo».
È dello stesso parere padre Giovanni Calcara, domenicano del convento San Domenico di Palermo: «Chi guida la comunità è il sacerdote che rappresenta Cristo Pastore e i parrocchiani devono riconoscerne la voce che li richiama alla pienezza di fede e di vita. Accanto a questa dimensione spirituale, c’è quella umana, psicologica: ci si affeziona anche alla persona, inevitabilmente, se ha un carattere gioviale, aperto, simpatico. E si rischia che ciò prevalga: così si va a messa e all’oratorio in una parrocchia che magari non è la nostra perché c’è un prete giovane o perché nelle omelie manifesta un pensiero che ci è più affine. Ma se ciò può funzionare anche nel rapporto spirituale, in quello sacramentale no: ci si accosta ai sacramenti perché in questi il sacerdote agisce nella persona di Cristo.
È inevitabile che il nuovo parroco apporti cambiamenti su organizzazione, modo di vedere la pastorale e di agire, ma è importante che cerchi la collaborazione e l’interazione dei parrocchiani, con l’ascolto e il dialogo. Dall’altra parte, la maturità della comunità parrocchiale si vede anche nel modo in cui accoglie il nuovo venuto e ne accetta la diversità come dono del Signore. Ciascuno di noi ha i propri carismi, e se si riconosce che nella sua azione agisce Cristo, la novità diventa motivo di crescita e non di critica fine a se stessa. Se la gente, in caso di contrarietà a una novità introdotta aiuta il parroco a capire le proprie motivazioni, lui può tenerne conto e venire incontro alle sue esigenze, purché non ci sia chiusura al dialogo».
Anche chi lascia può dare un contributo «Il parroco uscente, se davvero vuol bene alla sua gente, la deve educare a prepararsi alla diversità di chi verrà dopo di lui, con prudenza nei giudizi e senza partecipare al chiacchiericcio. Che, come dice il Papa, è la morte della comunione».
Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 30 del 23 luglio
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