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Federico, 26 anni e una laurea in fisica, dopo vari stage e tirocini non retribuiti o quasi,
finalmente ha trovato un lavoro stabile e ben pagato in una società high-tech. Ma ha
problemi con i colleghi: perché gli scaricano addosso i compiti meno gratificanti, non sono
socievoli o lo riprendono in pubblico per mancanze dovute all’inesperienza.
Ogni giorno torna a casa con una lamentela, e in famiglia si sta passando dall’entusiasmo alla
preoccupazione: la sensazione dei genitori è che da un momento all’altro potrebbe voler
lasciare una sistemazione così faticosamente trovata. Premesso che si può consigliare al
giovane di tentare di appianare conflitti e difficoltà con un dialogo chiarificatore e
atteggiamenti più “amichevoli” innanzitutto da parte sua, cercando un atteggiamento
propositivo e non oppositivo con colleghi e capi, evitando discussioni e pettegolezzi. Se la
situazione è di palese ingiustizia, sfruttamento o addirittura mobbing, è comprensibile che
la persona preferisca mollare piuttosto che rovinarsi la salute, in attesa di qualcosa di
meglio.
Ma è davvero così? E, comunque, non sarà troppo presto per gettare la spugna?
«È una situazione che si presenta più facilmente si presenta se i genitori hanno un
carattere ansioso, anche se si tratta di una preoccupazione legittima, dato l’attuale periodo
storico e sociale», premette Benedetta Comazzi, psicologa a Milano. «Ma se diventa
eccessiva, è controproducente: perché il rischio è che si trasformi in una sorta di
invischiamento di ruoli e nella proiezione delle proprie aspettative e paure di genitore sul
figlio e sulla sua situazione lavorativa. In qualche modo è come se il padre madre si
sostituissero al figlio anche nella preoccupazione, mentre dovrebbero limitarsi a
partecipare in modo empatico al suo stato emotivo».
Invece di farsi prendere dall’ansia o di vivere il disagio del figlio con i colleghi come un
“affare di famiglia”, sarebbe meglio “agire la preoccupazione”: «Perché magari il giovane
neanche la prova oppure intende sì licenziarsi, ma non è in ansia perché sa già di potere
trovare un altro lavoro. Sarebbe più costruttivo aiutarlo a capire quali risorse può mettere
in campo per gestire i problemi con i colleghi, dargli consigli o offrirgli diversi punti di vista
sulla situazione, evitando un atteggiamento sovrastante, una sorta di “possessività” che si
potrebbe tradurre in “sono spaventato perché non ti ritengo in grado di gestirla in modo
funzionale e adattivo. Ciò è dannoso, perché invece di portare verso una naturale
autonomia o indipendenza del figlio, fa sì che il genitore si occupi in prima persona di un
problema che di fatto non è suo».
Anche se i tempi e il mondo del lavoro sono molto cambiati, il mito del posto fisso
considerato sicuro – scuola, banca, ufficio pubblico, grande azienda… – perdura. «Dipende
molto anche dalla tempra, dal carattere, dalla personalità dei figli: la libera professione può
essere, paradossalmente, più sicura per molte persone. E poi bisogna dare fiducia ai
giovani: preoccuparsi in modo eccessivo perché un figlio vuole lasciare un lavoro che lo
rende infelice esclude la possibilità che abbia risorse che può mettere in campo, e che
forse possono portarlo più lontano del posto attuale. Ovviamente ciò è ancora più
frustrante se i genitori attuano anche un ricatto emotivo, rinfacciando al giovane la
necessità di essere ancora a loro carico economicamente. È chiaro che nessun padre e
nessuna madre vuole l’infelicità dei figli e cerca di aiutarli in buona fede “per il loro bene”,
ma è necessario al rischio che si ingenerino dinamiche che peggiorano la situazione, e,
magari, accelerano proprio quello che non si vorrebbe, e cioè disinteresse, apatia e quindi
abbandono del posto di lavoro».
Aggiunge padre Giovanni Calcara, domenicano del Convento San Domenico di Palermo:
«Il lavoro non serve soltanto per avere uno stipendio: come ha sottolineato papa
Francesco, permette all’uomo di realizzare la propria vocazione umana e spirituale, dà la
dignità alla persona. D’altra parte, le aspettative contano: il lavoro ideale che si sognava
può essere diverso dalle possibilità concrete che la vita ci offre, con una insoddisfazione
generale di base, a cui, magari si aggiungono false aspettative sul posto di lavoro e
rapporti con i colleghi. È necessario adattamento anche a chi è lì da prima di noi e ha
mansioni diverse che si sembrano migliori. La nostra santificazione passa anche
attraverso il sacrificio, la rinuncia al proprio io e l’accettazione di condizioni che magari
all’inizio sono ostiche soprattutto perché ne immaginavamo altre. E allora il compito dei
genitori, della moglie, della fidanzata o degli amici sta nell’aiutare la persona a capire la
natura dei problemi: sono oggettivi, ambientali o personali? E anche ad accogliere le
esigenze altrui: se un responsabile fa un appunto, non è “perché ce l’ha con te”, ma
perché è suo dovere farlo. Meglio parlarne, cercare di capire dove si può migliorare. Il
giovane va incoraggiato ad andare avanti, a ringraziare chi gli ha permesso di avere
questa opportunità professionale e di crescita: se alla prima difficoltà la persona viene
spinta a eludere i problemi, il rischio è che si ritrovi a fare i conti con le proprie fragilità
anche nel successivo posto di lavoro».
Mariateresa Truncellito
In “Maria con te” n. 27 del 2 luglio
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