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Demenza senile: come assistere i propri cari

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Prendersi cura di un familiare che via via perde contatto con la realtà è straziante e impegnativo. Ma per prima cosa bisogna mostrargli affetto e tenerezza.

 

Ha 76 anni, e agli albori della sua malattia scrive: «Ho una forte forma di confusione mentale e deficienza di memoria che da cinque anni va peggiorando. Non riesco a concentrarmi e il pensiero mi sfugge, anche quando parlo…

Non riesco più a cucinare, non mi ricordo come si faccia. Sono diventata lenta in tutto: mi fermo con un senso terribile di vuoto in testa. Se leggo o ascolto… dimentico subito tutto… Eppure non sono diventata stupida perché ragiono bene e ho tante idee».

Sono circa 950mila gli italiani affetti da demenza, e il dato è destinato a crescere con l’aspettativa di vita. Marco Trabucchi, professore di neuropsicofarmacologia nell’Università Tor Vergata di Roma e presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, ha scritto per San Paolo editore un libro che ricostruisce – dall’esordio alle fasi finali – la storia naturale della malattia di Alzheimer, le cui cause non sono ancora note, e fa il punto sullo sviluppo della ricerca sulle terapie. Ma, soprattutto, affronta il tema della relazione tra la famiglia, i caregiver e la persona colpita dalla demenza. Una storia d’amore in bilico tra un bisogno immutato di affetto e il carico di un’assistenza senza soste che richiede generosità e disponibilità.

“La demenza è una palestra per i legami”, è la frase conclusiva di Aiutami a ricordare. La demenza non cancella la vita. Come meglio comprendere la malattia e assistere chi soffre, ma è anche il filo conduttore del libro, che ha lo scopo di fornire informazioni, nutrire sensibilità e lenire sofferenze dando qualche punto d’appoggio.

A cominciare dal riconoscimento del ruolo dei caregiver, che per Trabucchi sono gli attori protagonisti della relazione: “Il testo è dedicato a tutti quelli che nella vita e nel lavoro con gli anziani mettono la tenerezza al centro dei loro comportamenti… la tenerezza permette di capire la sofferenza, più di qualunque altro mezzo comunicativo. È sorella di gentilezza, compassione, mitezza, delicatezza… e anche dell’impegno per essere migliori”.

L’assistito, che la vulgata ritiene “assente” e insensibile, ha in realtà sempre bisogno di atteggiamenti affettuosi, comprensivi, sereni. Talvolta difficili, pesanti e dolorosi, quando il parente non viene riconosciuto, è oggetto di atteggiamenti aggressivi o profonda apatia. Ai quali può aggiungersi la frustrazione del non essere sostenuti dal resto del nucleo familiare, il rapporto non sempre facile con gli operatori professionali, la conciliazione dell’impegno con figli, coniuge, altri genitori… e professione.

Perciò Trabucchi non esita a definire i caregiver vittime (o eroi) del lavoro di cura, perché lo stress indotto dall’assistenza è talvolta fortissimo. Ansia, depressione, disturbi del sonno, innalzamento della pressione sanguigna spesso accompagnano la vita dei caregiver, che sentono sulle loro spalle un peso insostenibile. Insieme al timore di ammalarsi e l’angoscia di non essere più in grado di affrontare l’assistenza.

A tutti loro, l’autore manda un messaggio di incoraggiamento: è necessario un esercizio di fiducia, per quanto difficile nel mondo straziante della demenza abitato da coloro che sembrano diventare diversi, estranei rispetto alle persone che erano prima.

Ma si diventa davvero “altro da sé” quando si perde la memoria? Si è davvero soli, oppure le relazioni affettive, nonostante tutto, restano possibili? Secondo la scienza, la risposta è sì: la demenza non cancella la vita perché la persona ammalata non perde le sue capacità di attaccamento alla vita. Perde la memoria, la capacità di interpretare la realtà, ma la capacità di esprimere scelte legate al proprio vissuto più profondo. E una memoria affettiva permane sempre, anche quando i centri nervosi sono quasi del tutto compromessi: la percezione di ciò che accade e gli affetti rimangono. Pure quando il resto è avvolto dalle tenebre.

Padre Giovanni Calcara, domenicano del convento di Soriano Calabro, ricorda che «La Sacra Scrittura dice “Anche se tuo padre perdesse il senno, compatiscilo”, mettendoci di fronte a una realtà che nessuno vorrebbe mai affrontare: non essere più riconosciuto dal proprio genitore, la persona a cui si deve la vita. È il momento in cui siamo chiamati a dare il meglio di noi stessi. Amore, rispetto, gratitudine sono doni gratuiti: proprio quando la persona non è più in grado di riconoscerci né di dirci “grazie” o diventa addirittura violenta con noi, quando della persona che è stata conserva solo l’aspetto esteriore o così ci sembra, dobbiamo accettare ancora di più la sua condizione nel nome di quell’amore che diciamo di provare per lei.

Padre Giovanni Calcara

Se siamo credenti, dobbiamo farlo per Cristo, che ci ha detto che il suo incontro con lui avviene nel povero, nell’anziano, in chi non ha nulla con cui ricambiarci. Ma anche con lo spirito di umanità che ci fa essere vicini ai nostri simili. L’incontro – o lo scontro – con queste malattie sono anche il termometro della nostra empatia, in base la quale noi perseveriamo a fare del bene in nome della fede, che va al di là di ogni spiegazione razionale: altrimenti cadiamo nella disperazione. Ma gli studi ci dicono che anche se la persona non reagisce come ci aspetteremmo, percepisce l’affetto di una carezza e quindi più le persone sono “lontane”, più dobbiamo avvicinarci a loro con i nostri gesti perché la percezione della dimensione epidermica, del tocco che lenisce, della voce amica si fa invece più acuta».

 
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Redazione

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