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Termini Imerese: i cunti di na vota, la storia du Nutaru Menzapinna

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Dovunque v’è un testamento li c’è sicuramente un notaio; quindi anche a carnevale. Ma laddove ancora in uso, in genere il notaio altro non è che una anonima figura a cui è delegato il compito istituzionale di dettare le ultime volontà della maschera.
Ed è stato così anche a Termini Imerese; o almeno lo è stato fino al 1996 allorché Nando Cimino ha pensato di dare a questa figura un nome, Menzapinna, ed un volto il suo. Volto che è finito con il diventare anch’esso una vera e propria maschera che, se pur solo al momento della lettura del testamento, si affianca a quella del nannu dandogli voce. Si rendeva a questo punto necessario raccontarne la storia; quasi una favola in realtà che anche con qualche mezza verità ne descrive il personaggio.
E l’autore, che sin da bambino è sempre rimasto affascinato dalle narrazioni le cui storie iniziano con la classica frase “C’era una volta…”; trovandosi a scriverne il racconto ispirato proprio a questo personaggio del Carnevale Termitano, lo ha fatto iniziando così:
…..C’era una volta in Sicilia anzi, a voler esser precisi a Termini Imerese, tranquilla cittadina a pochi chilometri da Palermo, un vecchio notaio che tutti chiamavano “Menzapinna”.
U nutaru, la cui età era prossima ai settant’anni, era persona a modo; rispettato da tutti ed a sua volta rispettoso degli altri egli, nonostante gli agi che gli aveva procurato la professione, viveva in maniera sobria e morigerata, senza eccessi e sregolatezze.
La sua era una scelta di vita; egli infatti non era avaro e la sua casa era sempre aperta a tutti. Vestiva decorosamente ma senza ostentazione; unico vezzo un elegante e coloratissimo fazzolettino di seta che leggiadro sbucava dal taschino di una vecchia giacca di velluto nero.
Il notaro era di media altezza, aveva capelli bianchi e folte ciglia che come cespuglietti svettavano rigogliosi sopra i grandi occhi di un intenso color blu oltremare, a stento filtrato dagli spessi occhiali che lo sostenevano nel suo lavoro e nei momenti di svago quasi sempre dedicati alla lettura. Sulla testa aveva trovato stabile dimora un classico basco nero il cui posto a fine giornata, e soprattutto nelle rigide sere invernali, veniva preso da uno zuccotto di lana di uno sbiadito color grigio.
Menzapinna abitava in un antico caseggiato di famiglia appartenuto prima al bisnonno, poi al nonno, e successivamente al padre; che gli aveva lasciato in eredità anche altre case e terreni, ivi compresa una sepoltura gentilizia nel vecchio cimitero di Giancaniglia.
L’abitazione aveva grandi balconi, ingentiliti da eleganti inferriate e da vasi di fiori ben curati, che si affacciavano in un’ampia e sempre affollata piazza del centro. Nei bassi, in parte dati in locazione, egli aveva sistemato il suo studio; al quale si accedeva attraverso un austero portone e dove, tra vetrine e scaffali, avevano trovato alloggio centinaia di libri dei più svariati argomenti.
“U nutaru”, come tutti comunemente lo chiamavano, non era sposato. A dire il vero in gioventù ci aveva provato; ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco e così, con il passare degli anni, egli si era ritrovato vecchio e solo. In realtà del tutto solo non era; con lui abitava infatti una non più giovane domestica che Menzapinna per sopravvenute necessità, aveva assunto; o, come sarebbe più opportuno dire, ospitato.
La donna infatti, vedova e senza figli, ormai con il notaio faceva vita in comune; abitava la stessa casa, e come fosse una perpetua con lui conversava, scambiava opinioni e consigli, e consumava i pasti. Solo a sera e dopo aver desinato, a gna Pina, questo il suo nome, si ritirava nella sua stanza, attigua a quella del notaio, e concludeva la giornata con la recita del Santo Rosario.
C’era insomma una sorta di anomala convivenza che in qualche modo dava a Menzapinna l’illusione di avere una moglie. In città tutti la conoscevano e la consideravano una brava donna; anche se suo malgrado, ed a causa della non certo notevole altezza, si era guadagnata a ‘nciuria di “Pina a curta”. A dar sostegno al notaio nelle ore di lavoro c’era anche don Fefè; una sorta di assistente di studio che, per via dei manicotti neri indossati assiduamente a protezione della giacca, veniva da tutti chiamato Fefè Menzamanica.
Fefè, anch’esso non più in tenera età, era un bonaccione; un omino all’antica che svolgeva con passione il proprio lavoro districandosi tra pratiche e scartoffie. Non di rado egli sbrigava pure commissioni che non sempre erano attinenti all’ambito lavorativo; insomma una specie di factotum.
Fefè aveva accettato di buon grado quel lavoro che in qualche modo lo faceva sentire importante e, ormai li da tanti anni, si accontentava della modesta paga che il notaio gli aveva assegnato e che comunque gli consentiva di sostenere dignitosamente la famiglia. Egli poteva peraltro contare anche su mance e regalie che clienti frettolosi non di rado gli elargivano per averne accelerate le pratiche.
Lo studio del notaio Menzapinna era frequentatissimo, era infatti il più conosciuto in città e lì, a fare atti, giungevano anche dai paesi vicini. La clientela era vasta ed eterogenea; c’erano medici, avvocati, professori, ma anche tanta povera gente; soprattutto contadini, anzi villici, come nei documenti di allora venivano chiamati. Quasi nessuno arrivava a mani vuote e così il notaio, in un attiguo sgabuzzino, aveva sistemato una vecchia credenza ed un ampio tavolo dove la gnà Pina riponeva ordinatamente ortaggi, caciotte, pane, biscotti ed ogni altro ben di Dio. Tutta roba che a dire il vero, il notaro non di rado offriva in elemosina ai tanti poveri che venivano a bussare alla sua porta.
Ma a questo punto mi chiedo e vi chiedo: “Vi siete mai domandati del perché il notaio avesse questo strano nome”? – In effetti questo non era il suo vero nome ma a ‘nciuria, e cioè il soprannome, che in passato serviva ad identificare le persone ancor più che il nome stesso. A ‘nciuria non aveva autore ma nasceva casualmente e veniva data quasi per scherzo con lo scopo di far risaltare pregi o difetti, ma soprattutto difetti e spesso anche fisici, che il destinatario della stessa si era in qualche modo “meritato”.
Nel caso del notaro Menzapinna essa era dovuta al fatto che egli, un po’ per fretta e fors’anche per cattiva abitudine, nello scrivere lasciava frequentemente parole incomplete, delle quali a volte si stentava a capire il significato. Insomma una sorta di abuso delle abbreviazioni. Ecco quindi che i clienti, a causa di questa sua abitudine, spesso commentavano: “O nutaru sta parola c’arristò mmenzu a pinna”.
E questo fin quando non gli rimase definitivamente proprio il nomignolo di “Nutaru Menzapinna”! Il notaio in effetti lo sapeva bene, e a dire il vero non se ne lagnava più di tanto; anzi, con molta simpatia, spesso ci rideva su.
Lo studio del notaro Menzapinna era pieno a qualsiasi ora, e di fatto non esisteva, come accade oggi, un vero e proprio orario di ufficio; quindi non era inusuale trovarvi gente fino a tarda sera ed a volte persino la domenica mattina.
Termini Imerese in quegli anni era una città economicamente attiva; fiorente era il commercio, ma anche l’agricoltura e l’artigianato; per non parlare poi di opifici, frantoi e mulini. Nella zona bassa della città tanti magazzini ospitavano merci che arrivavano anche dall’entroterra e che, dal vicino porto, venivano poi spedite verso le più lontane zone d’Europa ma anche nelle Americhe.
Il notaio era figlio unico; ma a Palermo aveva un cugino più giovane, sposato e con due figli ancora piccoli, che ogni anno nel periodo di carnevale, famiglia al seguito, veniva a trovarlo; e nella sua casa rimaneva, gradito ospite, per assistere alla festa. Ed era proprio un martedì grasso; giorno in cui come da antica tradizione si concludeva il carnevale termitano, quando u nutaru mentre stava caricando la sua inseparabile pipa con il fornello a forma di testa di mongolo, che gli aveva regalato la baronessa Satta al ritorno da un suo viaggio in oriente, senti bussare insistentemente alla porta.
Ad aprire andò, come faceva sempre, a gnà Pina. Il notaio chiese chi fosse; ma prima che la domestica potesse proferire parola, vide avvicinarsi due arzilli vecchietti che subito gli si fecero incontro riverenti e lo abbracciarono. Sembravano marito e moglie; lui bassino e rubicondo e dai modi allegri, lei alta ed allampanata.
Il notaio chiese quale fosse il motivo di quella visita; ed il nannu spiegò che sentendosi prossimo alla morte, intendeva fare testamento. Menzapinna ben conosceva quelle maschere e capì subito che si trattava di uno scherzo; ma si prestò al gioco. Fece entrare i due nel suo studio, e dopo avere preso carta e penna chiese al Nannu cosa intendesse lasciare. U nannu non si fece pregare; e mentre Fefè Menzamanica preparava il sigillo ed il tampone, dettò al notaio queste parole: ”Lassu a cu mi voli mali, la sputacchera e puru lu rinali; mentri a chiddi ca vonnu la me morti ci lassu un pupu cu l’anchi torti…” – Il notaio sorridendo scrisse; poi, ringraziando per la fiducia, offrì da bere e salutò. E da allora Menzapinna diventò u Nutaru du Carnalivari Tirminisi; e così ogni anno prima di finire bruciato, u nannu lo va a trovare per dettargli le sue ultime volontà.


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Redazione

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