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Termini Imerese: i segni del lutto

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Non di rado i segni di lutto, e ne ho personali ricordi, fin negli anni sessanta si estrinsecavano anche in taluni elementi che oggi potrebbero sembrarci ridicoli ma che allora avevano invece una loro specifica valenza.

I tanti carrettieri presenti ancora nella nostra città, usavano per esempio bardare con nastri neri anche il loro cavallo; e fin negli anni sessanta, pure tanti automobilisti erano usi trasferire questa caratteristica all’interno delle proprie macchine, al cui specchietto retrovisore appendevano un grosso nastro di stoffa nero. Anche i bambini, pur se piccoli, subivano analogo trattamento; e nei loro indumenti, giacca o camicia, veniva cucita una strisciolina di tessuto nero. Stesso ”sacrificio” veniva riservato alle bambine; che però, in questo caso, a meno che non erano figlie del defunto e quindi vestivano anche loro a lutto, se la cavavano con un nastro nero ai capelli.

I parenti più intimi portavano “u luttu strittu”; le donne soprattutto vestivano completamente di nero e pure con un velo in testa ed un grembiule di analogo colore. Tante, soprattutto se mogli del defunto e non più giovani, portavano il nero per tutta la vita; e, appesa al collo, anche una medaglietta a forma di cuore con la foto del marito.

Al braccio degli uomini, che per qualche settimana rimanevano anche con la barba lunga, spuntava sulla manica della giacca o del cappotto una larga striscia di stoffa nera; ed anche la cravatta e la coppola, che i più portavano pure d’estate, era di analogo colore.

I segni del lutto si estendevano anche ai parenti “a luntana”; o almeno a quelli che comunque, in segno di rispetto, volevano ugualmente far sentire la loro vicinanza. In questi casi si usava un grosso bottone di stoffa nera che veniva posto sul bavero della giacca o sopra il taschino; e vi rimaneva fin quando non si celebrava il trigesimo.

A tale occasione si era “invitati” tramite un bigliettino recapitato a casa, che riportava la foto del morto e qualche frase ripresa dal Vangelo. A Termini Imerese, la mia città, la gran parte di questi riti funebri venivano celebrati nella chiesa della Gancia.

Questo era spesso motivo di malumore con i sacerdoti delle altre chiese che lamentavano, e senza tanti giri di parole, i mancati “guadagni” derivanti dalle offerte. Anche per il trigesimo veniva messo alla porta un grande drappo nero; mentre, all’interno, si allestiva pure una sorta di catafalco, che rinnovava la mestizia del vero funerale, dando l’impressione che li vi fosse di nuovo il morto dentro “u tabbutu”.
In casa del defunto poi, i segni del lutto erano inequivocabili.

Per settimane non si accendeva radio o televisione, e per i giorni successivi alla morte del familiare, le donne non uscivano nemmeno di casa. Fatti fare a proposito dal falegname, come fossero mensoline da appendere al muro, o ricavati sul piano di un comò con sotto un centrino, spuntavano poi gli altarini.

Sopra di essi venivano raggruppate varie foto del “fresco” defunto, ivi comprese quelle degli antenati. Davanti si sistemava qualche piccolo vasetto di fiori, ma soprattutto, e sempre accesa, una luccioletta o la classica “stiarina”.

Qui i familiari si soffermavano la mattina appena alzati o la sera prima di coricarsi, per recitare qualche breve preghiera o per un semplice segno della croce; era uso anche sfiorare le stesse foto con il dito, come a voler dare un affettuoso bacio. A volte i parenti defunti diventavano quasi delle divinità; ed a loro, come fossero santi, si chiedeva intercessione in caso di bisogno o di malattie.

Le foto erano tenute ben presenti anche ai bambini, che spesso venivano alzati in braccio per favorirne la vista; e perpetuando loro con parole dolci e suadenti, il ricordo del defunto affinché, pure in sua assenza, ne venisse ancora coltivata la memoria con affetto e riconoscenza.

Anche la posta aveva la sua specificità adatta al caso; infatti se si doveva scrivere ad un parente si utilizzava un apposito foglio di carta listato a nero. Identica cosa per la busta.

Tutto ciò che qui avete letto, fu in uso nella nostra Termini almeno fin negli anni cinquanta del novecento; ne continuarono ancora per qualche tempo la tradizione gli appartenenti ai ceti popolari; per lo più contadini e pescatori. Poi tutto finì; ed oggi, di ciò, la modernità ha cancellato praticamente tutto.

(Nella foto un bigliettino di trigesimo degli anni ’50)


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Redazione

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