Termini Imerese: c’era una volta “A casa ri cani”

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C’è un posto della nostra città che, ancora oggi, è popolarmente conosciuto con il nome di “Casa ri cani”; anche se tanti magari ne ignorano l’esistenza, o nemmeno sanno dove si trovasse e perché fosse così chiamato. Ebbene la zona è quella del Belvedere; ed il luogo in cui si trovava era, ed è ancora oggi, quella sottostante al teatro Kalos, che anticamente fungeva da riparo del castello.
 
Tante le storie che vi si narrano e che parlano di apparizioni di spiriti, ma anche di luogo dove donne “peccaminose” andavano per incontrare i loro clienti.
 
Bisogna in realtà dire che, quando ancora il Belvedere terminava dove è attualmente la nota gelateria Cicciuzzu, quel posto veniva utilizzato dal nostro comune come canile; e da qui capite il perché di quel nome.
 
Era stato messo in funzione durante il periodo fascista per rinchiudervi proprio i tanti cani randagi che, nonostante i divieti ed i controlli, insieme a porci e galline vagavano numerosi per la città.
 
Per dissuadere quindi i nostri concittadini dall’abbandonare gli animali, e giusto per quanto riguardava i cani, il Podestà Cav. Roberto Verrone con delibera del mese di luglio del 1934 stabiliva che:
“…..essendosi riordinato il servizio per l’accalappiamento dei cani randagi, è il caso di stabilirsi la misura della multa da infliggere ai rispettivi proprietari che ne reclamano la restituzione….che con decorrenza da oggi, può infliggersi la multa di lire 10 per ogni cane accalappiato….”
 
Insomma il podestà, per dare decoro alla città, aveva pensato di usare le maniere forti; considerando che la cifra di dieci lire, che oggi potrebbe far sorridere, allora non era certo cosa di poco conto.
 
E degli accalappiacani ho anche io lontani ricordi, per averli visti all’opera almeno fin verso la fine degli anni cinquanta. Giravano per le strade a coppia con un particolare “attrezzo” che tenevano ben nascosto dietro la schiena e che, dotato di un opportuno congegno a molla, veniva fatto scattare al collo del povero animale che così rimaneva intrappolato. Al funzionamento del canile, o meglio della “casa ri cani”, sovrintendeva un veterinario comunale; e spero di sbagliarmi, ma dalla lettura di taluni documenti, e soprattutto dal racconto tramandato a voce da alcuni anziani, mi è sembrato di intuire che quei locali fossero dotati anche di una sorta di “camera della morte”; dove i cani non reclamati dai padroni e specialmente se vecchi ed ammalati, venivano abbattuti o comunque lasciati morire.
 
Mi auguro non fosse così.
 


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