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Vi ho accennato al fatto che a Termini Imerese la costruzione e l’utilizzo di veri e propri carri allegorici con il sistema della cosiddetta cartapesta non abbia avuto inizio che nel secondo dopoguerra; periodo che segna la rinascita della manifestazione che, come è facile immaginare, durante il periodo bellico aveva subito ridimensionamenti e sospensioni. Si ricordi a tal proposito che la nostra città durante il secondo conflitto mondiale, era stata oggetto di bombardamenti; e qualcuno ricorda che si diceva: “Termini a luttu e Palemmu distruttu”.
Tanti gli artigiani che dedicavano il proprio tempo libero alla costruzione di carri allegorici cimentandosi da autodidatti, ma in verità con ottimi risultati, alla realizzazione dei grandi pupazzi. Tra questi si ricordano tali Bontempo, Petta, Gullo, Garofalo, che di mestiere faceva il netturbino, ed ancora i fratelli Indovina Antonino e Giuseppe, quest’ultimo falegname del comune, e poi tale Manzella. Questi pare facesse il pompiere; e sposò successivamente una profuga istriana che abitava alla caserma La Masa conosciuta proprio durante i lavori di costruzione di un carro. In quel periodo tra gli organizzatori spiccano invece i nomi di Gaeta, Musotto, Balsamo, dei fratelli Puleo e poi ovviamente Don Andrea Sansone ed il figlio Giuseppe che in qualche occasione vestì pure i panni del notaio leggendo il testamento che lo stesso padre scriveva. In quegli anni, come prima accennato, si attinge anche a Viareggio; dove già operavano numerose maestranze esperte del settore che più volte, e questo accade almeno fino a parte degli anni sessanta, vennero anche a Termini Imerese per collaborare alla costruzione dei carri.
Ma ben presto all’intraprendente Ignazio Casamento, non riuscì difficile apprendere la tecnica di lavorazione ed a creare a Termini una vera e propria scuola di carnevalari e di lavoratori della cartapesta. Egli stesso ricordava di tale Cosentino, persona che si dice dotata di spiccato estro artistico che, da autodidatta, si era cimentato in tale lavoro modellando le forme di argilla e dando vita ai primi veri pupazzi, ammirati dagli stessi viareggini.
Avere delle abili maestranze sul posto segnò per il nostro carnevale un salto di qualità e tutta la organizzazione ne trasse vantaggio; ed il comitato si autofinanziava promuovendo raccolte e lotterie. Negli anni sessanta si provò anche, e con buoni risultati, a far pagare un contributo di ingresso a tutte le macchine che arrivavano in città per le sfilate; in cambio si offrivano trombette e cappellini. Ma capitò anche che alla fine della festa qualcuno dovesse metter mani al portafoglio per coprire le spese; tra quelli più disponibili si dice ci fosse sempre il notaio Francesco Candioto ed anche il senatore Edoardo Battaglia. Con il passare del tempo cresce l’impegno e la passione, ed ogni anno si lavora sempre più alacremente anche se con scarsissime risorse economiche. Tutto era praticamente affidato alla generosità dei privati; infatti costruivano carri il Dopolavoro delle Poste e delle Ferrovie, gruppi di artigiani, pescatori e poi anche la Pro Loco. Tra le maestranze del tempo viene ricordato anche un gruppo di falegnami di cui facevano parte tali Filippo Bova con altri fratelli e cugini, Salvatore Sperandeo, Gullo, Lo Cascio, Licata, Michele Calderone. Molto successo ebbe nel 1952 un loro carro che raffigurava un mezzo corazzato dal quale venivano sparati coriandoli e che ebbe a sfilare anche a Palermo alla “Festa del Fiore”.
Nessun sostegno economico ancora da parte del comune; ma qualcuno ricorda di sindaci che personalmente mettevano mano al proprio portafoglio per dare l’esempio contribuendo in maniera adeguata alle spese che il comitato sosteneva.
Non essendovi disponibilità di locali si improvvisavano cantieri un po dappertutto, persino sotto i ponti della ferrovia alla marina, ma anche in un cortile interno del Grand Hotel, o in via Inguaggiato presso l’omonimo palazzo che aveva ospitato anche Garibaldi e che per anni fu pure sede scolastica. La scuola era soprannominata “u ferru” per via di una inferriata che ne delimitava l’entrata dalla via Garibaldi anticamente detta “a strata a Batia”. Ma il quartier generale diventa presto per tutti la ex caserma La Masa; dove i carri trovano alloggio e spazi più idonei per la lavorazione in quel gelido capannone oggi adibito a magazzino comunale.
Anziani, ragazzi, ma anche interi gruppi familiari vi si trasferivano fin dai primi giorni di dicembre dando inizio alla grande avventura. Si lavorava, ma si trovava anche il tempo per organizzare qualche “schiticchiata”. Su qualche improvvisata brace si arrostiva salsiccia accompagnata da olive, qualche buona fetta di pecorino e sarde salate innaffiate con l’immancabile bicchiere di vino. Qui a far compagnia e spesso anche a collaborare, c’era Emilia; una profuga istriana che li abitava insieme al marito, e che di quel posto era diventata la custode. La lavorazione dei carri veniva spesso ultimata nella stessa mattinata delle sfilate e taluni costruttori vi prendevano parte ancora sporchi e stanchi non avendo avuto neanche tempo per ripulirsi e mangiare qualcosa prima dell’inizio. Ma tant’è venivano ripagati con una coppa e si accontentavano, beati loro, degli applausi e dei complimenti degli spettatori. Roba d’altri tempi!
Alla storia va pure aggiunto il fatto che in corso d’opera i carri venivano visionati da una commissione della quale facevano parte autorità civili e militari della città, ma anche religiose; nella fattispecie l’arciprete che in quegli anni era Mons. Michele Sarullo, e che aveva il compito di accertarsi che il carro non contenesse allegorie indecenti tali da poter turbare la pubblica morale. Insomma la censura! A sfilare non erano solo i carri, venivano anche costruiti dei grossi pupazzi di cartapesta a mezzo busto, con sottostanti pantaloni di stoffa variopinta e di adeguate dimensioni che erano sostenuti da una schiera di portatori ed in genere aprivano le sfilate. Chi si sobbarcava questa non indifferente fatica era gente del posto, particolarmente bisognosa, che approfittava del Carnevale per intascare qualche spicciolo. Si trattava spesso delle stesse persone che anche nei funerali prestavano la loro opera portando a spalla le ghirlande di fiori che precedevano la carrozza funebre.
Questa pratica di portare pupazzi a spalla, ma anche di spingere o trainare a mano piccoli carrelli con sopra bambini in maschera o altre allegorie dotate di ruote, durò per qualche decennio; in seguito venne del tutto abbandonata. Con il passare degli anni il programma diviene sempre più articolato e complesso si allarga anche la cerchia degli organizzatori con la partecipazione della Associazione Turistica “Pro Loco”. Pure la disponibilità economica incomincia a diventare più consistente anche perché si ha consapevolezza che la buona riuscita della manifestazione oltre a sostenere l’economia può dare della città una immagine sicuramente migliore.
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