C’è un “obbligo a ripetere”? Il rimettere in scena nell’età adulta modelli dis-educativi appresi come “normali” durante l’infanzia è un destino? «La violenza in ambito familiare è ancora uno dei comportamenti più diffusi nella nostra cultura», sottolinea Luciano Grigoletto, psicologo e psicoterapeuta. «I femminicidi avvengono soprattutto in ambito familiare, ma è solo la punta dell’iceberg.
Molto spesso la violenza – a volte più subdola – è un’abitudine che segna in modo drammatico le relazioni della coppia e quelle con i figli». Perché non riusciamo a comportarci in altri modi? «La violenza, spiegava lo scrittore Isaac Asimov, è l’ultimo rifugio degli incapaci. Molti di noi non sono in grado di accettare e gestire il conflitto come dimensione normale nelle relazioni familiari. Il mondo è molto cambiato nelle relazioni uomo-donna, ma il delitto d’onore, che in qualche modo legittimava la violenza sulle donne, è stato abolito solo nel 1981. Dobbiamo forse ancora comprendere che il conflitto è la dimensione più importante in qualsiasi relazione, e soprattutto nello spazio così intimo della famiglia. Esiste perché siamo persone diverse con bisogni e aspettative differenti.
Ma se non riusciamo a capirlo, il fatto che l’altro non sia come a piacerebbe a noi diventa motivo di delusione che può tradursi in rabbia, che poi diventa violenza». Il problema diventa più drammatico quando sono implicati i figli, che possono essere a loro volta vittime ma anche spettatori impotenti di ciò che il genitore, più spesso la madre, deve subire. Cosa succede in loro? «La risposta non è univoca. Può accadere di crescere nella paura, che poi si trasforma in incapacità di provare empatia per l’altro», spiega Grigoletto. «Ma anche di identificarsi nell’aggressore, sviluppando un atteggiamento di disprezzo verso la vittima. Così il rischio di riproporre da adulti comportamenti appresi nella famiglie d’origine è molto alto.
Spesso i figli di genitori violenti devono lavorare molto su se stessi per superare l’esperienza terribile e perdonare i loro genitori per andare avanti. Ma il perdonare è un’opzione certamente desiderabile, mai un obbligo. La riconciliazione più importante è con noi stessi: una ferita emotiva di questo tipo può trasformarci in persone che non si piacciono, che si percepiscono fragili, piene di rabbia e rancore, prigioniere della loro sofferenza». Rompere questo circolo, per cui il bambino abusato diventa spesso adulto abusante, non è facile, ma necessario, e talvolta serve l’aiuto dello psicologo. «Un primo passo può essere denunciare – anche anonimamente – le violenze che subiamo o a cui assistiamo». Perché allora così tante donne non denunciano le violenze? «Una risposta è nelle parole di una signora che ho seguito nel mio lavoro in un consultorio familiare», conclude Luciano Grigoletto. «“Dottore,ho più di 40 anni, due bambini, nessun lavoro né possibilità di trovarlo. L’affitto chi lo paga? Come dò da mangiare ai miei figli?”.
Con pazienza trovammo una soluzione.
Esistono strutture e persone che provano a sostenere le donne che cercano di denunciare e lasciare i mariti violenti. Un po’ è stato fatto. Molto resta da fare. Se potete, date una mano».
La mancanza di alternative è un’altra forma di violenza: su questo è d’accordo padre Giovanni Calcara, domenicano del convento di Soriano Calabro (Vibo Valentia). «C’è una violenza verbale o psicologica che spesso precede o va di pari passo con quella fisica, a volte già nel fidanzamento: un esperto potrebbe essere d’aiuto nei corsi prematrimoniali.
Guai a sottovalutare i segnali: bisogna sempre porsi il problema di come intervenire.
Donne e figli devono trovare la forza per denunciare, ma devono avere anche un’alternativa economica all’uomo che a spesso è l’unica loro fonte di sostentamento. La responsabilità, più che personale, è della società, dove spesso gli unici appigli sono associazioni di volontariato e l’accesso a strutture protette o fondi per il sostentamento delle vittime è difficoltoso».
I bambini possono prendere il genitore violento a modello, «Ma ci sono casi in cui proprio loro hanno chiamato la polizia, all’insaputa della mamma, salvandola. Insegnanti, catechisti, educatori possono accorgersi se qualcosa non va ed essere d’aiuto, anche cercando un programma di sostegno psicologico alla famiglia. Allo stesso modo, sempre i bambini possono essere la molla che spinge la donna a denunciare per proteggerli dalla violenza. E succede che, una volta diventati adulti, siano proprio loro a dire “Io una famiglia vera non l’ho mai avuta e voglio che i miei figli non subiscano quello che ha subito mia madre”.
Se c’è aiuto e progettualità, bambini e ragazzi possono essere recuperati perché non diventino a loro volta adulti abusanti o, peggio, donne prone a subire a loro volta una violenza familiare appresa come un inevitabile destino».
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