Una parola fraintesa, un invito respinto, un regalo mancato, un pettegolezzo: a volte basta poco per dividere le famiglie. Una frase di troppo o un gesto di meno e fratelli e cognati non si parlano per anni e smettono persino di celebrare insieme gli eventi più felici, dal battesimo del nipotino al compleanno della zia, fino a evitarsi pure ai funerali se non possono esimersi dal partecipare. Vittime innocenti dell’astio tra adulti i bambini, che perdono l’affetto dei parenti e nemmeno possono frequentare i cuginetti. Ci vorrebbe un dialogo chiarificatore, ma chiedere scusa e perdonare sembrano imprese impossibili: perché nessuno ha il coraggio di fare il primo passo oppure l’ostacolo è l’orgoglio o una permalosità all’eccesso.
«Saper chiedere scusa e saper perdonare sono due facce della stessa medaglia», conferma Benedetta Comazzi, psicologa del centro polispecialistico Medikern di Milano.
«La prima sarebbe una qualità auspicabile, perché permette di riparare a un danno, recuperare legami, pentirci per il nostro errore. Ma nonostante sbagliare sia umano, ammetterlo necessita di un’autovalutazione che è dominata dall’ego e per proteggerlo spesso non empatizziamo con chi abbiamo ferito. In più, ci viene insegnato fin da piccoli che sbagliare non va bene, e ciò sviluppa meccanismi di difesa che ci portano a negare l’errore, difendendo così la nostra autostima, ma anche rendendoci meno propensi a chiedere scusa».
Eppure farlo è importante: «Perché ci mette nella posizione di poter riparare e diminuisce la tensione che deriva dal fatto di aver sbagliato. Per riuscirci, è importante non associare le scuse a un gesto di debolezza e riconoscere le proprie responsabilità e i propri limiti. E mettersi attivamente a disposizione per riparare il danno, anche a livello pratico. Infine, bisogna dare voce all’empatia, riconoscere la ferita causata all’altro».
È importante anche saper perdonare: «Anche se è difficile, varie ricerche hanno dimostrato che l’atto del perdono ha effetti benefici su stress, ansia, depressione e rabbia. Ma è importante viverlo non solo in termini di “perdita” – di un pezzo di coerenza o integrità – ma di guadagno, di beneficio che facciamo a noi stessi», sottolinea Benedetta Comazzi.
«Spesso diciamo “ci ho provato, ma non ci riesco”: ma bisogna darci il tempo per imparare a perdonare. È più facile pensando che perdonare non vuol dire giustificare: sappiamo che l’altro ha sbagliato, però lo accettiamo. E non vuol dire neanche minimizzare, si riconosce il torto per quello che è, ma si riesce a ricollocarlo sia nel tempo – fa parte del passato – sia in termini di costi e benefici emotivi: il perdono pesa meno rispetto alla rabbia o al rancore. Ancora, bisogna staccarsi dal ruolo di vittima: è abbastanza confortevole, ma è necessario lasciare andare tutto il companatico di emozioni negative che ci tengono ancorati al torto, facendo più male a noi che a chi ce lo ha inflitto».
Per padre Giovanni Calcara, domenicano, «Alla base c’è il rapporto con il nostro prossimo. Se il rapporto familiare non è gestito indossando gli occhiali della carità – che, come insegna san Paolo “tutto sopporta, tutto crede, non manca di rispetto, non si adira” – ma a occhio nudo, vediamo solo i limiti dell’altro, considerandolo come un avversario, un nemico. Senza capire l’urgenza della riconciliazione come gratuità, secondo gli ammonimenti di Gesù, e non pensando che il perdono di Dio verso noi dipende dal perdono che noi concediamo agli altri. Lo diciamo anche nel Padre Nostro: “E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Senza questa prospettiva ognuno vive nel proprio egoismo, all’insegna del “deve essere lei/lui a chiedermi scusa per primo”, “io sono più grande”, “se non mi chiede scusa io non gli parlo”, creandoci una sorta di nostra legge personale all’insegna del più duro di cuore e della presunzione di essere comunque dalla parte della ragione».
Continua padre Giovanni. «Non bisogna comunque dare per scontato che un invito o una telefonata sia sufficiente come gesto chiarificatore. Occorre tempo, il giusto linguaggio, un colloquio a quattrocchi. Se non basta, può servire l’intervento di un genitore o di un amico: che non deve fare da arbitro, distribuire torti o ragioni, ma da mediatore che aiuti entrambi a vedere la questione da una prospettiva diversa».
Perdonare non è sinonimo di dimenticare: «Il perdono presuppone da una parte la giustizia. Il danno morale o materiale va riparato, la chiarificazione si deve accompagnare al risarcimento dell’altro, se ho offeso la sua onorabilità o dignità, se l’ho diffamato. Certo, pur di salvaguardare la pace in famiglia, è possibile anche rinunciare a un diritto: non per debolezza o per “dargliela vinta”, ma per far prevalere la carità facendo un passo indietro. Purché anche nell’altro ci sia un desiderio di riconciliazione».
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