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Termini Imerese: “storia di un sequestro con riscatto”

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Quante volte vi sarà capitato girando per il nostro Cimitero di Giancaniglia di vedere questo monumento.
Ma vi siete mai chiesti chi è il personaggio raffigurato e quale e quanta storia ha da raccontarci?  Ebbene quel busto, così come si legge anche nella scritta, è quello del Barone Angelo Porcari; figura di notevole spicco, nato proprio a Termini Imerese nel 1826. 
Angelo Porcari in realtà passò buona parte della sua vita a Palermo dove fu un apprezzato docente universitario ma dove rivestì anche delicati incarichi politici;  come quello di Assessore Comunale alla istruzione pubblica e di Vicesindaco.  Barone del feudo di Cammisini in territorio di Collesano,  produceva cereali, olio e vino di particolare pregio; attività quest’ultima che gli aveva anche consentito di ottenere premi in importanti esposizioni agricole.
Ma il Barone Angelo Porcari, così come si legge in un testo di G. Di Cenza dal titolo  “I Briganti del masnadiere Leone”  passò agli “onori” della cronaca nera siciliana il 10 Marzo del 1874 quando, proprio in territorio di Collesano, venne sequestrato dalla banda di Gioacchino Di Pasquale.    Per la sua liberazione fu pagato un riscatto di 63.000 lire; per quei tempi una cifra enorme.
Il sequestro del Barone Porcari fu una sorta di sfida allo Stato da parte della nascente mafia; in qualche maniera ancora identificata come “semplice” fenomeno di brigantaggio.  Infatti, giusto poche settimane prima, per ristabilire ordine e sicurezza, il Governo aveva mandato in Sicilia il Generale Alessandro Avogadro di Casanova.
Era una situazione difficile quella che dopo l’Unità d’Italia stava vivendo la nostra regione; e proprio il Generale Casanova, e giusto a proposito del sequestro del Barone Angelo Porcari, in una sua deposizione davanti alla Commissione Parlamentare di inchiesta sulle condizioni della Sicilia ebbe a dichiarare:    “….Il Barone Porcari ed altri, so che non ebbero il coraggio di parlare; non hanno avuto il coraggio di mettere l’autorità nella traccia del delitto….”.   
In buona sostanza il generale denunziava il fatto che i sequestrati, i quali quasi sempre ben conoscevano i loro sequestratori, si chiudevano dietro un muro di omertà; probabilmente per evitare altre e magari peggiori forme di ritorsioni. Di contro c’è da dire che in quel periodo storico i baroni, proprietari di immensi feudi, sfruttavano fino allo inverosimile i poveri braccianti; costretti a lavorare in condizioni disumane e senza alcun tipo di tutela. 
Ecco vedete quanta storia riesce a raccontare un monumento!   Magari la prossima volta, trovandovi al cimitero, soffermatevi a guardarlo con più attenzione.


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Sergio D'Amore

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