Ha ucciso almeno tre malati terminali, ma il sospetto è che ne abbia fatti passare all’altro mondo cinquanta. Opera di un barelliere diventato assassino, Davide Garofalo, 42 anni, casa e famiglia ad Adrano, fino alla scorsa estate in servizio davanti all’ospedale di Biancavilla su un’ambulanza privata trasformata in carro funebre anche per conto della mafia. Mani esperte e rodate. Una siringa usata per iniettare aria nella cannula dei pazienti che morivano per embolia all’interno dell’ambulanza, stando all’accusa e a un testimone, un giovane collaboratore dei clan, un pentito adesso pronto a confermare una verità echeggiata lo scorso maggio in tv: «La gente non moriva per mano di Dio».
Ci pensava Garofalo ad accelerare la fine, dopo aver convinto i parenti che, uscendo dall’hospice di quell’ospedale alle falde dell’Etna speravano di trascorrere le ultime settimane o gli ultimi giorni con i parenti in fin di vita. Ma quando arrivavano a casa, il barelliere constatava che il paziente non ce l’aveva fatta. A quel punto offriva i propri servizi per trovare una pompa funebre e provvedere alla vestizione della salma. Operazione che fruttava 300 euro a volta.
Mentre sotto il controllo del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro proseguono gli accertamenti su circa 50 episodi, mostra tutto il suo sconcerto l’aggiunto Francesco Puleio: «Veniva anticipata la morte delle persone con un disprezzo assoluto per la vita umana…». E il comandante provinciale dell’Arma Raffaele Covetti: «Una crudeltà contestata come aggravante». Almeno nei tre casi accertati anche con i ricordi di parenti attoniti perché avevano creduto nella fatalità, trattandosi di malati vicini alla fine. Un novantenne, un ottantenne e un 55enne. «Tutti traditi nella fiducia accordata al barelliere», come dice Andrea Bonomo, il pm della Direzione antimafia che ritiene Garofalo una pedina dei clan Tomasello, Mazzaglia e Toscano di Adrano e dei Sant’Angelo di Biancavilla, in contatto con i Santapaola-Ercolano di Catania.
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