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Sono trascorsi 26 anni dalla strage di Capaci in cui morirono il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie
Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta:
Antonio Montinaro,
Rocco Dicillo e
Vito Schifani.
Era esattamente il 23 Maggio 1992, quando tutti i telegiornali d’Italia diedero la notizia di ciò che era appena accaduto. A Palermo, in quelle ore, si viveva un clima di confusione e di tensione. Poi la tragica conferma, la mafia aveva ucciso il magistrato antimafia Giovanni Falcone.
La sezione penale
Era il settembre del 1979, quando nonostante le preoccupazioni familiari, accettò l’offerta che da tanto tempo Rocco Chinnici gli proponeva e passò così all’Ufficio istruzione della sezione penale, che sotto la guida dello stesso Chinnici divenne un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino, che divenne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro arretrato di oltre 500 processi.
Nel maggio del 1980 gli venne affidata la sua prima inchiesta contro Rosario Spatola, un costruttore edile palermitano, incensurato e molto rispettato, perché la sua impresa aveva dato lavoro a centinaia di operai. In realtà doveva la sua fortuna al riciclaggio di denaro, frutto del traffico di eroina dei clan italo-americani.
Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie. Si doveva ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici e avere un quadro complessivo del fenomeno. Con le sue indagini Falcone, incominciò a vedere i confini della grande organizzazione mafiosa di cosa nostra.
Risalì al rapporto fra gli amici di Spatola e la famiglia Gambino, rivelando i collegamenti fra mafia americana e siciliana.
Il 6 agosto dello stesso anno fu ucciso il procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa. Subito dopo assegnarono la scorta a Falcone.
Il pool antimafia
Il progetto del pool antimafia nacque dall’idea di Rocco Chinnici, condivisa poi con Falcone, Paolo Borsellino e di Giuseppe Di Lello, ma successivamente sarebbe stato sviluppato da Antonino Caponnetto (subentrato a Chinnici, ucciso il 29 luglio 1983).
Nel marzo 1984, avrebbe poi costituito un “pool” composto da quattro magistrati (nel frattempo si era aggiunto anche Leonardo Guarnotta), affinché coordinasse le indagini sfruttando l’esperienza maturata e quello sguardo d’insieme e sul fenomeno mafioso portato da Falcone.
I quattro magistrati erano affiatati, amici e con un sogno comune: restituire la città ai palermitani e la Sicilia ai siciliani onesti. Il pool doveva occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti.
Il maxiprocesso di Palermo a cosa nostra
Era l’estate del 1985, quando cosa nostra fece terra bruciata attorno ai magistrati italiani. In quel periodo vennero uccisi Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da quel momento si iniziò a temere per l’incolumità dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara.
Durante quel periodo iniziarono a preparare l’istruttoria. Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro la mafia in Italia, passato alla storia come il maxiprocesso di Palermo.
Era il 10 febbraio 1986 quando ebbe inizio e terminò il 16 dicembre 1987. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.
Il primo attentato a Falcone
Cosa nostra sapeva che Giovanni Falcone era forte, che sapeva, che aveva capito e che poteva smantellare con la sua forza e determinazione tutto ciò che la mafia aveva costruito durante il corso degli anni.
La sentenza del maxiprocesso non piacque a molti, per questo il 21 giugno 1989 Falcone divenne obiettivo di un tentato attentato presso la villa al mare affittata per le vacanze. Conosciuto comunemente come attentato dell’Addaura.
Alcuni mafiosi piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice. Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice, allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il bagno, ma l’attentato fallì.
Inizialmente venne ritenuto che i killer non fossero riusciti a far esplodere l’ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone.
In quell’occasione Falcone dichiarò che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso. Parlò inoltre, di “menti raffinatissime”, e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata.
La strage di Capaci
Era il 23 maggio del 1992, Falcone insieme alla moglie stavano tornando da Roma. Il jet di servizio era partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 e arrivò all’aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti.
Il boss Raffaele Ganci seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, che guidò le tre Fiat Croma blindate dalla caserma “Lungaro” fino a Punta Raisi, dove dovevano prelevare Falcone.
Ganci telefonò a Giovan Battista Ferrante (mafioso di San Lorenzo, che era appostato all’aeroporto) per segnalare l’uscita dalla caserma di Montinaro e degli altri agenti di scorta.
Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistemò alla guida della Fiat Croma bianca e accanto prese posto la moglie, Francesca Morvillo mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza occupò il sedile posteriore.
Nella Croma marrone era alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra c’erano Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.
In testa al gruppo di auto vi era la Croma marrone, seguita dalla Croma bianca guidata da Falcone e infine la Croma azzurra. Imboccarono l’autostrada A29, in direzione Palermo.
Gioacchino La Barbera, (mafioso di Altofonte) seguì con la sua auto il corteo blindato dall’aeroporto di Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè, che si trovavano in osservazione sulle colline sopra Capaci.
L’esplosione
Erano le 17:58, quando Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo, sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada.
La prima auto, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi, a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo.
La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schiantò contro il muro di cemento e detriti, improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza.
Rimasero feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resistette, e si salvarono miracolosamente.
La detonazione provocò un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada.
In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine diedero l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere.
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Gli uomini passano, le idee restano
“A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”
Questa è una delle frasi più celebri di del magistrato Falcone.
La sua morte, insieme a quella del giudice Borsellino, avvenuta solo pochi mesi dopo, scossero il cuore e le coscienze di molti.
Aveva ragione Falcone, perché la mafia ha fatto in modo che tacesse per sempre, uccidendolo. In realtà però, il magistrato Falcone non è mai morto.
Non è mai morto perché le sue idee e i suoi principi continuano a vivere. Vivono ogni giorno in coloro che lottano giornalmente contro la mafia.
Vivono ogni giorno, in tutti coloro che seguendo il suo esempio combattono contro la criminalità organizzata, per restituire a questo paese, un paese onesto, fatto di gente onesta.
“La mafia -affermava-, è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo.”
Il ricordo da parte de I Sansoni
«Conoscere è la prima arma per contrastare la mafia».
Queste le parole di Fabrizio e Federico Sansone, del duo comico I Sansoni, i quali hanno voluto ricordare il magistrato con un video nel quale Fabrizio dialoga direttamente con il magistrato.
«Ogni anno, quando un bambino conosce la tua storia -afferma Fabrizio -, nasce una nuova speranza. Ogni giorno, quando qualcuno si ispira a te e ha il coraggio di ribellarsi, nasce una nuova coscienza».
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